Più di quattromila nigeriani fuggiti dagli abusi dei jihadisti nel nord-est della Nigeria nel vicino Niger hanno fatto ritorno nelle loro case, nonostante l’insicurezza che ancora regna in tutta l’area. Gli operatori umanitari temono che il ritorno dei profughi a Malam Fatori, nello stato del Borno, epicentro dell’insurrezione jihadista da oltre dieci anni, provocherà ancora più vittime e sfollati.
Nella regione, inoltre, i servizi base per la popolazione sono pressoché inesistenti, perché la città, praticamente deserta da mezzo decennio, è molto vicina alle zone controllate dai terroristi. Le autorità, poi, hanno deciso di chiudere i campi per gli sfollati e traferire coloro che esprimevano il desiderio di tornare nelle loro case. L’obiettivo è chiaro: incoraggiare la popolazione a soddisfare i propri bisogni tornando a lavorare i campi, lasciandoli praticamente soli nella gestione, non solo della loro sopravvivenza, ma anche della sicurezza.
Nata nel 2009, l’insurrezione jihadista nel nord-est della Nigeria ha causato oltre 40mila morti e 2,2 milioni di sfollati. Migliaia di nigeriani sono fuggiti dalla violenza stabilendosi nella regione di Diffa, nel vicino sud-est del Niger. Ma da allora i gruppi jihadisti Boko Haram e il suo rivale Stato islamico nell’Africa occidentale (Iswap) hanno esteso la loro capacità di azione anche oltre confine, lanciando attacchi dalle loro roccaforti incastonate sulle rive del lago Ciad.
All’inizio di marzo, uomini armati hanno attaccato tre villaggi in Niger, proprio dove si erano rifugiati i nigeriani. Secondo il ricercatore dell’Institute for Security Studies, Malik Samuel, hanno “ucciso 45 persone e ne hanno rapite altre 22”, anche per questo molti rifugiati vogliono tornare in Nigeria.
L’esercito nigeriano ha, di recente, effettuato sgomberi e pattugliamenti, ma tutta l’area rimane saldamente nelle mani dei jihadisti ed è ancora la roccaforte dello Stato Islamico, che ha ripreso il sopravvento su Boko Haram, continuando una contesa infinita e sanguinosa tra i due gruppi, con i civili che ne fanno, come sempre, le spese.
Per anni i jihadisti hanno piazzato ordigni improvvisati e mine, messo in atto imboscate sulle strade e preso di mira anche le postazioni dell’esercito. I rifugiati tornati nella regione del Borno devono affrontare anche il problema delle mine e il tornare a lavorare i campi, per loro, potrebbe essere fatale. Gli stessi militari sono particolarmente cauti quando si muovono nella regione e la loro preoccupazione principale è mettere in sicurezza le basi contro le azioni dei terroristi. In passato gli attacchi in quest’area, in particolare a Maiduguri, hanno fatto poche vittime perché erano praticamente disabitate ma, già a febbraio di quest’anno, Iswap ha affermato di aver ucciso almeno 30 soldati in due imboscate.
Negli ultimi sei mesi, quasi 50 attacchi hanno avuto luogo vicino al confine con il Niger, di cui 38 a Malam Fatori. Secondo un funzionario locale un distaccamento della Multinational Joint Force, che include militari provenienti da Camerun, Niger, Nigeria e Ciad, è stato dislocato nell’area, ma con un mandato di due mesi. Poco cosa per fronteggiare lo strapotere jihadista e garantire a chi rientra un minimo di sicurezza per poter riprendere una vita pressoché normale.
La vera sfida, tuttavia, inizierà proprio questo mese, con il ritorno delle piogge e la ripresa delle attività agricole. I civili potrebbero “avventurarsi” nei campi, ma questo è normale se vogliono coltivare e sopravvivere, e finire per calpestare una mina, oppure essere rapiti dai gruppi jihadisti. I rischi sono molto alti.
Chi torna, poi, deve affrontare una situazione di precarietà mai vista prima. Nelle città l’accesso ai servizi essenziali è limitato se non assente. Le stesse Organizzazioni non governative si rifiutano di avventurarsi nella regione perché temono rapimenti e agguati. Non esiste, nemmeno, una strada sicura per accedere a Malam Fatori. “Siamo preoccupati per un rimpatrio troppo frettoloso a Malam Fatori”, spiega alla France Presse, Camilla Corradin, portavoce del Forum INGO Nigeria, che raggruppa 54 Ong internazionali che forniscono aiuti umanitari. Rimpatri che non “rispecchierebbero i quadri giuridici internazionali”, insiste la Corradin e che “rischiano di non essere sostenibili e di causare danni ai rimpatriati, anche provocando ancora più sfollati”.
E poi c’è il problema dell’accesso all’acqua potabile. Nella città di Malam Fatori l’unico punto per potersi approvvigionare di acqua è nella base militare, spiegano fonti umanitarie. Le autorità dello stato del Borno hanno detto di aver donato denaro e cibo ai rifugiati e di aver costruito una scuola e un centro sanitario. Ma, sempre secondo fonti umanitarie, la scuola non ha insegnati e nella clinica manca tutto e non c’è nemmeno un mercato in città. La cruda realtà è che i rifugiati vivono in una sorta di campo di “concentramento”, sono tenuti in città senza alcun accesso ai servizi primari e, ora che sono tornati, non possono lasciarla.
Iswap e Boko Haram
La resa dei conti è arrivata il il 19 maggio 2021. Nella foresta di Sambisa (nello Stato nord-orientale di Borno) si fronteggiano i miliziani di Boko Haram e dell'Iswap (Stato Islamico della Provincia dell'Africa Occidentale), altro gruppo terroristico nato dalla scissione di Boko Haram e affiliato all'Isis. Questi ultimi hanno la meglio. Nel corso dello scontro avrebbe perso la vita anche Abubakar Sekau, leader storico di Boko Haram.
Fu Al-Baghdadi in persona (fondatore dello Stato Islamico iracheno) a rimuovere Sekau nell'agosto 2016 e a nominare Abu Musab al-Barnawi a capo del gruppo islamista, sancendo la frattura tra le due fazioni. La pratica terroristica tra i due schieramenti è la stessa: omicidi, razzie, rapimenti di donne e bambini.
Ma l'Iswap si distingue nell'evitare abusi e maltrattamenti agli ostaggi durante la prigionia e nell'avere tra gli obiettivi preferiti campi militari, sedi istituzionali, e siti petroliferi. A rafforzarne il consenso è l'attenzione ai bisogni della popolazione. A fronte della violenta risposta militare dello Stato centrale, i miliziani fanno proseliti in una regione poverissima dove ai giovani senza prospettive non resta che l'opzione terroristica.
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