13 settembre 2018

A 80 anni dalle leggi razziali. Il razzismo culturale e giuridico nelle colonie italiane in Africa

Il razzismo giuridico e culturale nelle colonie africane, e i motivi per cui la sua conoscenza e discussione siano necessari nell'Italia di oggi.


Nella costruzione del mito “Italiani brava gente”, uno dei capisaldi è l’idea che Mussolini abbia fatto le leggi razziali «solo perché le ha imposte Hitler»

Ammettere una responsabilità, anche collettiva nel razzismo fascista di stato, renderebbe difficile (per gli italiani) raccontarsi come "brava gente", ma anche come un popolo eccezionalmente mite e accogliente.

Le leggi razziali sono state derubricate, così, a umana debolezza nei confronti della volontà dell’unico vero cattivo, Hitler e, per estensione, il popolo tedesco. Filippo Focardi ha ben spiegato questo processo proiettivo, fondamentale nel plasmare la costruzione identitaria del dopoguerra, nel libro "Il cattivo tedesco e il bravo italiano" (Laterza - 2014)

Ma c’è un altro capitolo della vicenda delle leggi razziali e del Manifesto della Razza che, fino al lavoro di una nuova generazione di storici e, soprattutto di storiche, era stato ignorato, il razzismo giuridico e culturale nell'Africa orientale italiana.

Premessa. Il "madamato" nelle colonie italiane
Si scrive "madamato", ma si legge "schiavitù sessuale" o matrimonio comprato. Un termine usato nelle ex-colonie italiane, prima in Eritrea e successivamente anche nelle altre colonie, Libia e Somalia. Un termine che era un vero e proprio contratto, una pratica molto in voga negli anni '30. Tutti i fascisti nelle ex-colonie italiane avevano la propria "madama minorenne" di colore dentro il letto. Non solo i militari, ma anche i civili.

Una piccola schiava sessuale di colore, nativa delle terre colonizzate, che veniva acquistata con poche lire. Una relazione temporanea "more uxorio" (come tra marito e moglie) tra un cittadino italiano e una "nativa". Sin dai primi anni di presenza italiana in Africa Orientale il fenomeno venne giustificato come rispondente alla tradizione locale del "damazio" (nozze per mercede, matrimonio combinato)

Gli italiani però intendevano il madamato come libero accesso a prestazioni domestiche e sessuali. Fu un'abitudine che si diffuse enormemente sia per la lontananza delle mogli italiane e delle famiglie, sia per le preferenze accordate dai Comandi Militari rispetto alle occasionali frequentazioni di prostitute locali. In pratica i comandi militari italiani preferivano relazioni stabili a quelle occasionali, veicoli di malattie sessualmente trasmissibili.

Ecco ciò che scriveva in Italia la propaganda fascista nelle sue riviste e nei suoi quotidiani: "Non si sarà mai dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Con i negri non si fraternizza, non si può e non si deve. Almeno finché non sia data loro una civiltà"

Il madamato, oltre alla schiavitù sessuale produsse un'altra atrocità, non secondaria, i bambini nati da questi "matrimoni comprati". Il fenomeno portò alla nascita e al loro contestuale abbandono di migliaia di figli "meticci" non riconosciuti dal padre la cui unica sorte era quella di essere abbandonati oppure di venire accuditi presso orfanotrofi religiosi.

Solo con l'introduzioni delle leggi razziali (1938) il madamato venne formalmente proibito e penalmente perseguito, anche se i risultati furono scarsi. Le leggi razziali infatti introdussero il principio della non mescolanza delle razze. Il regime fascista giudicava rovinosa la mescolanza per l'integrità della razza e per il prestigio dell'Italia imperiale. Quindi tutti gli italiani che avessero avuto rapporti sessuali con donne di un'altra razza, ebrei o neri, sarebbero stati condannati con una pena detentiva da uno a cinque anni. Questa "norma" nelle ex-colonie veniva scarsamente applicata anche perché i comandi militari nel frattempo avevano ben altro a cui pensare, la guerra.
(Pedofilia e fascismo, il colonialismo italiano le viscere della follia)

Italiani "razzisti" già prima di Hitler
Ci sono buoni motivi per cui la conoscenza e la discussione sul razzismo "culturale e giuridico" siano necessarie nell'Italia del 2018.

Il primo motivo è la falsa affermazione secondo la quale le leggi razziali sono state solo una concessione alla volontà esterna dei nazisti.

La prima legge dell’Italia unitaria che si possa definire razzista fu promulgata già nel 1933, quindi anni prima di qualsiasi accordo con Hitler. Stabiliva che i figli meticci nati nelle colonie africane (allora Eritrea e Somalia) potevano sì ottenere la cittadinanza italiana al compimento del diciottesimo anno, ma solo se ritenuti in possesso di specifici «requisiti morali e culturali», nonché dopo procedimenti di «diagnosi antropologica etnica».

Si voleva così evitare di confondere un meticcio con un «bianco scuro» o un «nero bianco». Tale norma è ritenuta dagli storici la prima effettivamente razzista, poiché rivolta a un intero gruppo di persone. Una legge, cioè, che giudica la persona non per le azioni che ha commesso ma per ciò che è.

Nel compiere ricerche su questo argomento mi sono imbattuta nella figura dell’antropologo "razzista" (definizione sua) Lidio Cipriani. Cipriani era uno di quegli accademici che già anni prima della promulgazione del Manifesto della Razza, di cui non a caso fu uno dei firmatari, si posero l’obiettivo di dare una base “scientifica” alla supremazia razziale dei bianchi.

Il Razzismo Scientifico
Certo, non erano solo italiani i cultori di questa pseudoscienza. L’intera costruzione culturale del razzismo come lo intendiamo oggi è figlia della lunga storia del colonialismo. Il così detto "Razzismo Scientifico" infatti pone le sue basi già nell'800. I primi teorici di questa pseudo-scienza ritenevano che il cervello dei neri africani era più piccolo rispetto a quello dei bianchi, paragonabile a quello delle scimmie evolute, e quindi l'uomo nero non poteva essere "intelligente" come l'uomo bianco occidentale.

Su queste basi, ovvero con questa scusa pseudo-scientifica, le potenze europee della seconda metà dell'800 iniziarono a colonizzare l'Africa. E così Germania, Francia, Gran Bretagna, Portogallo, Spagna e, dopo la Prima Guerra Mondiale, anche l'Italia si spartirono il continente africano.
(Il mio libretto, "La Spartizione dell'Africa")

Ma gli accademici italiani come Cipriani si distinsero per il fervore con cui tentarono di sistematizzare il “razzismo scientifico”. Il loro tentativo di sancire l'arianità degli italiani, con conseguente superiorità sugli abitanti delle colonie, produsse un’accozzaglia di misurazioni antropometriche, giudizi morali (gli africani definiti «naturalmente pigri»), vaste e vaghissime sintesi storiche (la superiorità degli eredi della civiltà romana presentata come fatto oggettivo, misurabile).

Non solo non furono costretti da superiori alleanze con il nazismo in questa impresa ma, anzi, ne furono precoci culturi: il primo viaggio in Africa di Cipriani è del 1927. E quella legge del 1933 fissa implacabilmente questa imbarazzate cronologia anche nella storia del diritto.

Valenze di genere
Il secondo motivo è lo stesso per cui negli ultimi anni il contributo più interessante alla ricostruzione del colonialismo italiano è venuto da storiche e studiose di questioni di genere come Barbara Sorgona, Giulietta Stefani, Giulia Barrera: non si può capire il razzismo italiano, sia ai tempi delle colonie che oggi, senza prenderne in considerazione le valenze di genere. Questo perché lo scopo primario delle leggi razziali in Africa era la «difesa della razza» (non a caso è anche il titolo della rivista fondata per propagandare il razzismo) dalla «degradazione» del meticciato. E prevenire la nascita di bambini meticci significa regolamentare la sessualità e gli affetti.




Cartoline della propaganda fascista

Questo principio a sua volta, però, si scontrò con quello dell'erotismo, del sesso, della dominazione coloniale che da sempre, fin dalle prime stampe d’epoca, aveva rappresentato l’Africa come una donna nera nuda pronta a essere posseduta dal colonizzatore bianco.

Il piccolo e sgangherato colonialismo italiano non fece eccezione. La propaganda fascista per convincere i giovani maschi ad arruolarsi volontari nella guerra d’Abissinia fu anche fatta distribuendo nelle case di tolleranza cartoline erotiche raffiguranti discinte giovinette africane. Si prometteva che i loro corpi neri sarebbero stati totalmente a disposizione del desiderio dei coloni bianchi. I giovani italiani entusiasti credettero a quella promessa e s’imbarcarono intonando "Faccetta nera"

Quest’ambivalenza verso il corpo delle donne africane, da un lato disprezzato come inferiore e dall'altro oggetto di un desiderio libero da qualsiasi responsabilità morale, sociale o di relazione, non poteva non deflagrare.

La bomba furono le leggi razziali. Il Regio Decreto Legislativo 19 aprile 1937, numero 880, Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra cittadini e sudditi, riconosceva al colono la necessità di «espletare i suoi bisogni sessuali» con le indigene. E questo molto spesso ha significato violenze e stupri "legalizzati" verso le donne.

Quella che veniva sanzionata con reclusione fino a 5 anni era ciò che si definiva «unione di letto e di desco». Ovvero quella condivisione di pasti, quotidianità e affettività che avrebbe rischiato di stabilizzare le coppie, creare famiglie, portare insomma a una società multietnica. La canzone "Faccetta nera", che nonostante tutto un po’ di tenerezza per la “bella Abissina” la esprimeva, venne perciò proibita.

I coloni italiani, ovviamente, continuarono lo stesso ad avere rapporti con le “indigene, a tenersele in casa come “madame”, a volte perfino a volere loro un po’ di bene. Soprattutto, continuarono ad arrivare quei pericolosissimi nemici della purezza razziale, i bebè, i figli nati da quelle unioni. Con la legge del 13 maggio 1940, numero 882, Norme relative ai meticci, si proibì una volta per tutte il riconoscimento legale del figlio meticcio da parte del padre italiano, creando una generazione di "bastardi di stato" destinati al disprezzo sociale.

Ottant’anni dalle leggi razziali fasciste

Il 14 luglio 1938 venne pubblicato Il Manifesto degli scienziati razzisti, ripubblicato il 5 agosto sulla rivista "La difesa della razza"

L’obiettivo era dare una base “scientifica” alla supremazia razziale dei bianchi. Leggi che hanno avuto conseguenze rilevanti anche nelle colonie italiane in Africa. Una norma del 1940 vietò agli italiani di riconoscere i figli avuti da relazioni con donne africane. La cittadinanza italiana veniva riconosciuta solo a chi l’aveva ottenuta prima della guerra. Si calcola che nella sola Eritrea, su circa 15mila nati da matrimoni misti, meno di 3mila siano stati riconosciuti dai padri italiani.


Gli italo-eritrei non riconosciuti erano considerati cittadini di serie “B” anche dagli stessi eritrei che non tolleravano i "colonizzatori" italiani e le donne eritree che si accoppiavano con loro.

Corpi neri disprezzati
Soprattutto se il corpo nero è quello di una donna, da un lato disprezzato per quel colore nero della sua pelle, ma dall'altro fonte di desiderio sessuale.

Ci sarebbe tanto altro da raccontare sulle leggi razziali in Africa orientale italiana, dalla negazione agli africani dell’istruzione oltre la quinta classe, allo sfruttamento lavorativo permesso dalla sottrazione di ogni tutela legale. Il fatto è che ancora oggi il crescente razzismo in Italia, anche quello ai livelli più alti delle istituzioni, è indistricabilmente connesso a due questioni, proprio come allora: lo sfruttamento sul lavoro (vedi ad esempio le condizioni dei lavoratori nell’agro-alimentare) e le questioni di genere, rispetto della donna.


Il corpo nero di migliaia di donne vittime della tratta (una prostituta su 3 in Italia è nigeriana) è obbligato a esporsi quotidianamente alla violenza sulle nostre strade.

E proprio come le leggi razziali in Africa orientale italiana chiudevano un occhio sull’«espletamento dei bisogni sessuali» del maschio italiano negando intanto diritti e dignità alle portatrici dei corpi in cui questi bisogni venivano “espletati”, così oggi la società italiana nasconde a sé stessa l’enorme questione dei corpi di donne nere disprezzati, ma anche desiderati da milioni di "clienti" italiani.

«In Italia è reato andare a letto con una tredicenne o una quattordicenne. Ma se è africana non importa niente a nessuno. Non pensano a lei come a una persona, ma solo come a una ragazza di colore»

Le leggi razziali fasciste in Africa dichiaravano che gli italiani dovevano difendersi dalla “minaccia” del meticciato, mentre in realtà erano loro gli occupanti invasori.

Allo stesso modo, molti tra coloro che oggi gridano alla “invasione dei migranti, nonostante tutte le statistiche dimostrino il contrario, fanno parte di quei 6 milioni (stima per difetto) di clienti che ogni giorno “espletano i loro bisogni sessuali” nei corpi desiderati e disprezzati di donne africane. Anche oggi viene invertito l’aggressore con l’aggredito, proprio come 80 anni fa.


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Articolo a cura di
Maris Davis


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