Dopo il parto donne costrette a subire violenze e umiliazioni. “Detenute in ospedale per pagare le cure”
Faida, una giovane 20enne congolese, ha partorito il suo Jospin da 3 mesi, ma il piccolo non ha ancora visto la luce del sole tropicale che abbaglia le foreste nord-orientali della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Entrambi sono rinchiusi in uno degli ospedali fatiscenti della città di Beni, al confine con l’Uganda, non lontano da dove, a dicembre, un gruppo di ribelli ugandesi ha ucciso 14 Caschi blu dell’Onu.
Faida dopo una serie di complicazioni durante il travaglio è stata costretta ad un parto cesareo costato 260 dollari, una cifra che è riuscita a pagare solo in parte grazie all'aiuto di parenti e amici. Mancano ancora 170 dollari per saldare il debito, ma lei non lavora e il marito è disoccupato, così, finché non riuscirà a racimolare l’intera somma, sarà «detenuta» all'interno dell’ospedale, costretta a lavare i panni sporchi degli altri pazienti, dopo aver già venduto i pochi vestiti che aveva.
Ragazze giovanissime, spesso neo-mamme, incoscienti dei loro diritti, costrette a subire umiliazioni di ogni genere perché non hanno il denaro sufficiente per pagare diaria e trattamenti sanitari forniti dagli ospedali pubblici e privati
In uno studio effettuato per sei settimane nel 2016, Chatham House ha scoperto che 46 su 85 donne congolesi, ossia il 54% tra coloro che avevano partorito, venivano trattenute in ospedale per non aver pagato la degenza. Secondo il rapporto, almeno 950 casi sono stati documentati nel periodo 2013-2017, ma date le difficoltà nell'accedere alle strutture è probabile che il fenomeno riguardi migliaia di donne.
Una pratica così diffusa tanto da diventare, in molte regioni del Paese, il principio per cui è diritto dell’ospedale non dimettere le giovani donne finché il conto non è stato saldato. Fino a quel giorno vengono controllate a vista da guardie private nelle strutture sanitarie, in alcuni casi i medici propongono sesso in cambio della liberazione, altre volte vengono umiliate pubblicamente e costrette a lavori schiavistici all'interno dell’ospedale per ripagare il debito.
Il numero di sfollati in Repubblica Democratica del Congo ha raggiunto quota 4 milioni e ogni giorno, secondo i numeri del Consiglio norvegese per i rifugiati, 5.500 persone sono costrette ad abbandonare le proprie case. Una «mega-crisi», come l’ha definita l’istituzione scandinava, che sta colpendo diverse regioni del Paese. Dal Kasai al Katanga al Kivu settentrionale e meridionale. Un’instabilità dovuta alle lotte tribali, alla guerra per i preziosi minerali della regione, il coltan su tutti, e agli scontri tra forze governative e ribelli indipendentisti, stanchi della presidenza di Joseph Kabila, alla guida della Repubblica Democratica del Congo dal 2006.
Alcune donne "prigioniere" all'interno di uno degli ospedali della Repubblica Democratica del Congo |
Una decisione che ha portato a un’escalation di violenza soprattutto nella regione indipendentista del Kasai, dove, secondo le stime del World Food Programme (Wfp), al momento 500 mila persone sono malnutrite a causa della crisi. In totale l’agenzia delle Nazioni Unite stima che almeno 3,2 milioni di congolesi stanno vivendo una grave crisi alimentare anche per la mancanza di donatori internazionali.
Dopo mesi di trattative Kabila, anche grazie al ruolo cruciale nella mediazione della Chiesa cattolica locale, si era convinto a indire nuove elezioni alla fine del 2017, salvo poi far saltare nuovamente il banco e posticipando le presidenziali di un anno. Una svolta che ha portato le Nazioni Unite, presenti nel Paese con 19 mila Caschi blu in quella che è la più grande missione di pace al mondo, a innalzare il livello di emergenza ad L3, il più alto presente e destinato in precedenza ad altre crisi come Siria, Iraq e Yemen.
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