Armi in Africa, un affare per pochi, un affare da 18 miliardi di dollari all'anno nella totale impunità.
Allo stato delle cose il commercio di armi in Africa è incontrollabile, un numero infinito di armamenti, soprattutto nella fascia magrebina, Tunisia, Algeria, Marocco, sui quali non si può individuare la provenienza, che si ereditano e passano da guerra a guerra, da paese a paese, anche attraverso i social network.
Il Trattato internazionale sul Commercio di Armi (ATT) non è sufficiente. L'origine dei mali dell'Africa sta, da sempre, negli interessi miliardari dei paesi ricchi dell'occidente. L'Archivio Disarmo fa un'attenta analisi della situazione.
Diciotto miliardi di dollari all'anno vengono spesi in Africa per uccidere migliaia e migliaia di persone già morte di fame. Su 500 milioni di armi piccole e leggere (Salw) circolanti nel mondo, ben 100 milioni vengono usate clandestinamente in tutto il continente africano.
Nessuna novità eclatante, ma questo emerge dallo studio, il più possibile aggiornato, che l'Archivio Disarmo ha stilato per mettere in guardia sull'esplosione incontenibile del commercio di armi nel continente più sanguinario del mondo.
Le spese militari aumentano costantemente. Le spese militari dell'Africa sono andate crescendo costantemente dal 1990 a oggi. Risulta che l'acquisto di armi nel continente sia passato, in termini reali, dai 17,9 miliardi di dollari ai 42,7 del 2013. L'incremento maggiore è nell'area nord-africana, dove si è passati dai 3,8 ai 18, mentre nell'Africa sub-sahariana la crescita è dai 14,1 ai 24,7. Pur essendo queste cifre piuttosto approssimative, poiché non tutti i paesi africani presentano regolarmente bilanci attendibili, comunque indicano una chiara linea espansiva e allarmante.
Gli acquirenti di armi nel paese. I tre maggiori importatori nel periodo 2009-2013 sono stati Algeria (36% dell'import), Marocco (22%) e Sudan (9%). L'Algeria ha quasi raddoppiato le sue spese (da 5.712 milioni di dollari a 9.902), come anche la Tunisia (da 586 a 978), mentre il Marocco è passato da 3.101 a 4.077. L'Egitto, in controtendenza, scende da 4.597 a 4.303.
I territori dell'Africa sub-sahariana poi, hanno ricevuto il 41% delle importazioni globali africane. Molti di questi stati mantengono costanti le proprie spese, mentre pochi altri evidenziano aumenti di un certo rilievo, come l'Angola (da 3.640 milioni di dollari a 5.208), la Repubblica Democratica del Congo (da 154 a 301), il Kenya (da 597 a 731), la Namibia (da 384 a 465), la Nigeria (da 1.825 a 1.995), il Sudafrica (da 4.602 a 4.894), la Tanzania (da 221 a 308), l'Uganda (da 292 a 398), lo Zambia (da 254 a 367) e lo Zimbabwe (da 102 del 2010 a 334).
Armi fai da te e importazioni. Lo "Small Arms Survey" (il progetto di ricerca sulle armi di piccolo taglio, con sede in Svizzera), rileva che sia i gruppi armati del Sudan, sia quelli ribelli del Sud Sudan raramente utilizzano armi piccole e leggere acquistate all'estero.
Alcuni paesi, Sudan in primo luogo, sono diventati produttori loro stessi di armi e munizioni. Mentre gli stati che le importano maggiormente (Algeria, Angola, Burkina Faso, Botswana, Etiopia, Ghana, Libia, Marocco, Mozambico, Namibia, Sudan, Sudafrica e Uganda), le comprano soprattutto in Cina, Francia, Russia e Bielorussia. I paesi più attivi nel diffondere Salw (armi leggere) in Africa, infine, sono Usa, Cina, Francia, Israele, Russia e Italia.
Eserciti e governi nazionali alimentano il mercato. Possono essere le stesse forze armate o della polizia a rafforzare il mercato clandestino, come è avvenuto nel Burkina Faso e in Nigeria. Mentre altre volte sono gli stessi governi che armano gruppi ribelli in altri stati, contro i quali i governi di questi ultimi riforniscono a loro volta gruppi armati e mercenari.
Difficile da spiegare, perché è un meccanismo simile a quello delle matrioske. Aprendone una si apre un mondo. I veri e propri trafficanti, poi, sono di volta in volta le stesse forze di sicurezza, militari o ex-militari, mercenari e avventurieri, che trasportano armi dalla Libia al Mali, dalla Costa d'Avorio alla Liberia.
Grazie anche a legislazioni differenti tra i vari paesi, i trafficanti riescono a trasportare le loro merci utilizzando metodi leciti e illeciti, lacune giuridiche, legami tribali, corruzione. Nell'Africa occidentale sono state individuate 38 direttrici commerciali di armi clandestine. Mentre il traffico dell'area sahariana è dominato dai gruppi nomadi che contrabbandano anche sigarette e carburante.
Dove sono finiti gli arsenali della Libia dopo Gheddafi? Gli arsenali delle forze libiche, dopo la caduta di Gheddafi, sono stati smembrati e indirizzati verso varie destinazioni (Mali, Siria, Gaza, ecc.). Nei depositi libici erano presenti ben 22.000 MANPADS (sistemi missilistici antiaerei a corto raggio trasportabili a spalla). Di questi, 5.000 sono stati messi al sicuro, ma a oggi, dei restanti 17.000 si sono perse le tracce. Si sa soltanto che 17 sono stati sequestrati in Algeria, 400 sono già stati venduti illegalmente.
E ancora, su 450.000 armi da fuoco dell'esercito libico, 12.000 hanno seguito una sorte analoga. I circa 2.000 tuareg provenienti dal disciolto esercito libico si sono portati le loro armi in Mali, contribuendo all'aggravamento delle tensioni già da tempo in atto in questo paese.
Gli arsenali libici e il traffico nell'Africa occidentale. Risulta che gli arsenali di Gheddafi, dopo la sua caduta, sono diventati la fonte per tutti i traffici illeciti del continente, in particolare nell'area dell'Africa occidentale. Per esempio, nel gennaio 2012 sono stati intercettati oltre 1 milione di cartucce e 567 armi in entrata in Egitto, mentre diverse altre migliaia di cartucce, con destinazione Mali, sono state sequestrate in Niger e un altro rilevante quantitativo (oltre mezzo milione di munizioni) è stato sequestrato dalle autorità libanesi a bordo di una nave battente bandiera del Sierra Leone.
Lo smercio tramite Facebook. Italia, Francia, Cina, Russia. Armi e munizioni vengono vendute anche attraverso i mezzi di comunicazione come Facebook, il che ha permesso di rilevare la presenza in Libia di munizioni provenienti dalla Turchia, dal Belgio, dal Portogallo, dalla Russia, dalla SNIA italiana, dalla cinese Industria di Stato 31 e così via.
Il violento gruppo jihadista nigeriano Boko Haram, che ha dichiarato incondizionata adesione all'ISIS, per esempio, si è rifornito non solo al mercato nero nell'Africa centrale, occidentale e settentrionale, ma anche assaltando i depositi delle forze armate e di sicurezza della Nigeria, che a sua volta le aveva acquistate da Italia, Francia, Cina, Russia, Ucraina, Repubblica Ceca, Israele, Sudafrica e EAU (Emirati Arabi Uniti).
Il "made in Italy" delle armi in Africa. L'Italia, tra i primi 10 esportatori di armi al mondo, grazie alla centralità nel Mediterraneo e all'elevata qualità e affidabilità dei prodotti offerti dalla Beretta, è stata in grado di sviluppare un florido commercio di armi con i paesi del Nord Africa i quali, poi, hanno fatto circolare le nostre armi per l'intero continente, facendo sì che oggi ne esportiamo anche in Sud Africa.
Il 6% delle maggiori armi convenzionali esportate in Africa sono italiane e solo Ucraina, Russia, Cina e Francia ne hanno esportate di più. Per quanto riguarda le Salw (armi leggere) e relative munizioni, tra i paesi dell'Ecowas che l'Italia ha rifornito ci sono Ghana, Mali, Nigeria e il Senegal, i quali hanno importato tali merci per un valore di poco inferiore ai 2 milioni di dollari. Considerato ciò, è lecito pensare che molte armi "made in Italy" siano finite in mano a ribelli, terroristi o semplici civili, così come è già accaduto per le armi russe e statunitensi.
Speranze possibili. La situazione a dir poco deflagrante del continente, ha spinto i governi stessi a cercare soluzioni comuni. I paesi dell'Ecowas (Benin, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Capo Verde, Gambia, Ghana, Guinea, Guinea Bissau, Liberia, Mali, Niger, Nigeria, Senegal, Sierra Leone e Togo) hanno attivato un'apposita convenzione su Salw, munizioni e materiali relativi, divenuta esecutiva dal settembre 2009.
Inoltre, dopo essere stato approvato dall'Assemblea Generale dell'Onu, è entrato in vigore a livello mondiale nel dicembre 2014, l'Arms Trade Treaty (ATT), teso a controllare un mercato sinora lasciato alle singole normative nazionali. È necessario che l'ATT venga ratificato da tutta la comunità internazionale per creare un export sempre più responsabile.
Anche se il Trattato non è del tutto rispondente alle infinite necessità, è comunque un primo passo per cercare di mettere sotto controllo la confusionaria pluralità legislativa sulla circolazione di armi, che favorisce produttori e trafficanti. È troppo presto per vederne i risultati, ma questa è la strada da percorrere per ridurre la violenza in Africa e nel mondo.
Bambini Soldato, Repubblica Centrafricano |
Arms Trade Treaty (ATT). Trattato ratificato da 72 Paesi. Il Trattato sul commercio di armi, adottato il 2 aprile 2013 dall'Assemblea generale dell'ONU ed entrato in vigore a livello mondiale nel dicembre 2014, è stato firmato da 130 Stati e fin'ora ratificato da 72. Esso definisce per la prima volta gli standard internazionali per la compravendita delle armi, legandoli al rispetto dei diritti umani. L'intesa non controlla l'uso domestico, ma chiede che gli Stati membri si dotino di normative nazionali sul trasferimento delle armi convenzionali, tra cui carri armati, aerei e navi da guerra, veicoli da combattimento, artiglieria, elicotteri, missili, razzi a lunga gittata, ma anche fucili, pistole e munizioni.
È previsto inoltre il divieto, per gli Stati che ratificano il trattato, di trasferire armi in caso di un embargo, atti di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra.
(da un'inchiesta di Repubblica)Articolo curato da
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