'Chiedevamo protezione, ora siamo schiavi'. Dalla Toscana alla Sicilia, molti Centri di accoglienza sono diventati un serbatoio di manodopera a basso costo. Lì vanno a rifornirsi caporali e imprenditori senza scrupoli, nonché protettori e mafie che avviano le ragazze alla prostituzione. Per l’opinione pubblica, però, i migranti sono ancora “parassiti che mangiano e dormono”
Come lui centinaia di migranti ospiti dei centri d’accoglienza lavorano nelle campagne da Nord a Sud. In Toscana per la vendemmia del Chianti, in Calabria per le patate della Sila, in ogni angolo della Sicilia per raccogliere pomodori, arance e olive. Almeno tre inchieste della magistratura raccontano di migranti arrivati in Italia per chiedere protezione e finiti in schiavitù. Decine di testimonianze lasciano intravedere un fenomeno molto ampio. Cresciuto proprio mentre l’opinione pubblica si accaniva sui parassiti che “mangiano e dormono negli hotel a cinque stelle”
I “Cas” (Centri di accoglienza straordinari) sono strutture d’emergenza, gestiti da privati ma autorizzati e controllati dalle prefetture, quindi dal governo. Il Cas può essere un piccolo albergo, un centro anziani riadattato o un casolare nel nulla. I tempi di permanenza, decisi dalla burocrazia statale, vanno dai sei mesi ai quattro anni. Il migrante presenta richiesta d’asilo e aspetta. Ma nel frattempo cosa fa?
Quelli dei Cas
“Benvenuti nella città del sale e dell’accoglienza”. All'ingresso di Trapani i cartelli stradali ricordano il business del passato e quello del presente. In provincia ci sono una trentina di Cas. In un territorio prevalentemente agricolo, i migranti in attesa sono una manna dal cielo per l’agricoltura in crisi. Ad Alcamo, durante la vendemmia, molti dormono in una piazza del centro. Accampati con sacchi a pelo, cucinano sull'asfalto mentre accanto i vecchietti del paese giocano a carte. Al mattino si metteranno in fila per essere caricati sui furgoncini.
In Sicilia si è prodotta una stratificazione. Tunisini coi capelli grigi, da venti anni in Italia, si affiancano a giovani sub-sahariani sbarcati da pochi mesi. “Sono quelli dei Cas”, li indicano. Quei giovani che non parlano italiano sono concorrenti temibili. “Tanto lo Stato ti dà da mangiare e dormire”, dicono i padroni dei campi. E pagano il meno possibile.
Cinquanta euro ai tunisini, 25 ai romeni, da 15 a 7 per gli ospiti dei Cas. A Vittoria, provincia di Ragusa, il salario di un bracciante a giornata è precipitato. Nelle campagne, al tramonto, decine di africani in bicicletta tornano dalle serre ai centri di accoglienza. In tasca hanno una manciata di monete, il misero compenso di dieci ore di lavoro.
Il caporalato da queste parti non c’era. Da poco si sono formate le prime reti. Tre mesi fa la polizia arrestava alcuni imprenditori. L’accusa? Utilizzavano operai gravemente sfruttati: 19 richiedenti asilo, due tunisini e cinque romeni. Questi ultimi vivevano in casolari fatiscenti nei pressi dell’azienda, gli altri tornavano a dormire nei Cas. Si tratta di una delle prime applicazioni dalla legge anti-caporalato, che punisce il grave sfruttamento sul lavoro.
Come in gabbia
Le testimonianze su casi analoghi rimbalzano da un angolo all'altro della Sicilia. L’associazione Borderline Sicilia si occupa di monitorare l’accoglienza. Racconta per esempio di un centro anziani a Canicattì che ha aggiunto alla ragione sociale l’ospitalità dei profughi. “Alle 4,30 del mattino si va nel punto di raccolta e si aspetta il contadino che passa con il suo camioncino e sceglie fra adulti italiani, africani e rumeni. Ma anche tanti minori, che non si perdono nella depressione dell'inattività, ritrovandosi a farsi sfruttare per qualche euro in tasca”
Nel centro sarebbero presenti persone che stanno lì “posteggiate” da tre anni, neo-maggiorenni fuoriusciti dalle comunità per minori, migranti in transito per altri centri
“Ho comprato una bicicletta per 25 euro. Ogni giorno, aspettiamo le otto. È l’orario di apertura, prima non si può. Stiamo dietro i cancelli, come in gabbia. Poi le porte si aprono e cerchiamo qualcuno che ci dia lavoro per la giornata”
Pecore e patate
Come si comportano i responsabili dei centri di accoglienza quando vedono strani movimenti intorno ai loro ospiti? Alcuni aiutano a denunciare. La maggior parte fa finta di niente. Qualcuno si trasforma in caporale.
È il caso di due Cas nella Sila cosentina. Tutto inizia con la denuncia di un migrante, percosso e minacciato solo perché rallenta la raccolta. La magistratura interviene contro quattordici persone accusate di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”. Era l’operazione “Accoglienza” dello scorso maggio, prima applicazione assoluta della legge anti-caporalato.
Un episodio svela la certezza di impunità nella zona. Durante la notifica del provvedimento, uno degli agricoltori continuava a impartire ordini agli africani, lamentandosi con i carabinieri per il tempo che perdeva (“le fragole si rovinano”)
Ma i migranti erano sfruttati due volte: nei campi e come mezzo per ottenere finanziamenti. I famosi “35 euro” finivano tutti in tasca ai gestori, che rendicontavano attività di “integrazione” mai svolte. Invece i rifugiati senegalesi, nigeriani e somali lasciavano i centri alle sei del mattino per lavorare nei campi di patate o per fare i pastori. Il compenso? Poco più di un euro l’ora.
Il vino del Chianti
L’inchiesta si chiama “Numbar Dar” (“Capo villaggio”) e risale alla vendemmia di un anno fa. Dimostra che il problema non è solo del Sud o di territori in crisi.
Tra fattorie storiche nate negli anni ’20, vigneti e colline le aziende del Chianti ricorrevano alla manodopera a basso costo dei centri di accoglienza. Il caporale pachistano, i consulenti di Prato, quelli che falsificavano le buste paga, e i titolari delle aziende vinicole erano i cardini del sistema.
Circa 160 migranti sono rimasti incastrati nel sistema. Lavoravano fino a dodici ore al giorno per quattro euro l’ora e venivano spesso picchiati. Nelle giornate di picco della raccolta dell’uva, i viaggi da Prato a Tavarnelle Val di Pesa erano due al giorno. I caporali privilegiavano i connazionali pakistani: solo a loro era concesso del cibo e un po’ di acqua. Se occorrevano altre braccia, venivano chiamati a lavorare a giornata anche richiedenti asilo africani, vittime di maggiori soprusi. I “negri” non avevano il diritto di bere né di avere scarpe: lavoravano a piedi nudi nei campi.
Cara di Foggia, migranti costretti a dormire con i materassi a terra Cara di Foggia, lager di Stato |
È evidente a tutti che così com'è l'accoglienza NON funziona, e tanto meno NON funziona l'integrazione. Lodevoli le iniziative come il sistema Sprar e la così detta "accoglienza diffusa", ma è solo una goccia nel mare dell'ipocrisia. Uno, due, forse tre su cento sono gli immigrati che in questo modo riescono ad integrarsi veramente. E tutti gli altri ?? L'attuale legge che regola l'immigrazione e l'accoglienza (Legge 30 luglio 2002, n. 189 Bossi-Fini) NON funziona più, desueta e perfino razzista. Un legge approvata da quelle destre che adesso protestano, diffondono paure pur di avere visibilità e forse qualche voto in più. È questa una delle cause di una più ampia diffusione di progetti Sprar nei singoli comuni italiani. Una legge, la Bossi-Fini, che ha permesso in passato la creazioni di grandi centri di accoglienza (Cara di Mineo, Cara di Foggia, Cara di Isola Capo Rizzuto, ecc..) diventati ormai dei veri e propri "parcheggi per immigrati in attesa", lager di stato, fonte di guadagni privati con denaro pubblico per le cooperative che li gestiscono, serbatoi infiniti di manodopera a buon mercato per mafie, caporali e sfruttatori. E nell'attuale emergenza di inseriscono tutti, ma proprio tutti, perfino i privati, pur di far diventare le loro strutture alberghiere, case di riposo, casolari dismessi centri di accoglienza straordinari (i così detti CAS) e quindi prendersi quei 35 euro al giorno per ogni immigrato "ospitato", e più immigrati ci sono e più a lungo rimangono, e più si guadagna. Certo tra i tanti che si propongono ad ospitare stranieri ci sono anche coloro cho lo fa davvero con lo spirito del buon samaritano, ma questi casi temo non siano molti. E poi c'è l'attesa degli immigrati, l'attesa di una risposta da parte della burocrazia italiana, una risposta che arriva dopo mesi (quando va bene) o dopo anni (anche più di due) se sei sfortunato o fai la tua domanda di asilo nella provincia sbagliata. Si cerca di arginare gli ingressi facendo accordi con i libici e con i paesi di partenza dei migranti, chiedendo all'Europa una la redistribuzione equa e solidale, e maggiori risorse per gestire la prima accoglienza o per aiutare i paesi dell'Africa. Tutte cose di per se giuste, ma ci si è dimenticati di dire che tutto questo viene fatto nella cornice di una legge che NON funziona più, una legge che, lo ricordo di nuovo, approvata dalle destre (governo Berlusconi 2002) Per tutto questo noi di Foundation for Africa abbiano deciso di aderire alla campagna "Ero Straniero, l'umanità che fa bene", con l'obiettivo di portare in Parlamento un proposta di legge per modificare la Bossi-Fini. |
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