29 dicembre 2017

L'imbroglio dei finti profughi eritrei

Oltre 100 mila migranti sbarcati in Italia negli ultimi 4 anni hanno detto essere cittadini eritrei, ma almeno il 30-40% di essi sarebbe in realtà etiope. Il business dell'identità rubate ai "veri" profughi eritrei.


"Nei centri di accoglienza almeno un terzo degli eritrei sono finti. In gran parte si tratta di etiopi del Tigrai, che parlano la stessa lingua e hanno i tratti somatici simili". A denunciare lo sconcertante imbroglio è un richiedente asilo che viene da Asmara. L'aspirante rifugiato prosegue: "In Africa, grazie alla corruzione, rubano e vendono le nostre identità perché abbiamo diritto alla protezione internazionale, ma ci meravigliamo che questo venga tollerato in Italia"

Gli eritrei in attesa dell'asilo politico in Italia adesso sono pochi, 2.651 e gli arrivi in calo (6.386 nel 2017). Però dal 2013, quand'è iniziato il boom dopo il terribile naufragio di Lampedusa (368 morti), sono sbarcati in Italia 109.266 migranti che hanno dichiarato di essere eritrei.

In gran parte hanno proseguito verso Svizzera, Germania o paesi del Nord Europa. Oltre un terzo sarebbe in realtà di nazionalità etiope, ovvero migranti per motivi economici che non hanno diritto automatico all'asilo politico.

Già due anni fa l'ambasciatore austriaco in Etiopia, Andreas Melan, aveva denunciato l'inghippo sostenendo che "il 30-40 per cento dei rifugiati eritrei in Europa sono in realtà etiopi". C'è da precisare che fra Etiopia ed Eritrea non corre buon sangue da dopo la sanguinosa guerra del 1998, che ancora non ha tracciato un confine definitivo.

L'uomo forte dell'Eritrea, il presidente Isaias Afewerki, è accusato di autoritarismo e scarso rispetto dei diritti umani, anche se ultimamente la situazione starebbe migliorando. Ma i giovani continuano a scappare: per non sottoporsi al gravoso servizio militare e per motivi economici, alla ricerca dell'eldorado occidentale.

Di recente anche l'ambasciatore eritreo a Roma, Pietros Fessahazion, ribadisce: "Il 40 per cento di quelli che ottengono l'asilo sono in realtà etiopi"

La rivista Panorama ha indagato sulla vicenda, portando alla luce un meccanismo che si basa su furti di identità a partire dai campi profughi dell'Onu in Etiopia e Sudan, su mediatori culturali compiacenti che sorvolano sulla vera nazionalità del migrante e su personaggi, come l'eritreo don Mussie Zerai, capaci di mobilitare i soccorsi in mare per recuperare i barconi al largo della Libia. Gli stessi richiedenti asilo eritrei "doc" rivelano i particolari.

"Nel campo profughi in Etiopia di Mai Ani mi hanno rubato l'identità" spiega Fasil, arrivato nel 2016 in Italia con un barcone. "Dopo anni di attesa del ricollocamento dell'Onu nei Paesi disponibili ho scoperto che era già partita un'altra persona con le mie generalità"

I Paesi che accolgono gli eritrei attraverso le Nazioni Unite sono Stati Uniti, Canada, Australia, Norvegia, Francia e più recentemente l'Italia. Il giovane eritreo, che oggi ha 27 anni, racconta dell'imbarazzo della funzionaria occidentale dell'Agenzia per i rifugiati (Unhcr), che ha controllato sul computer il suo nome: "È rimasta stupefatta. I miei dati risultavano corretti, ma la foto della persona già partita grazie alle Nazioni Unite non era mia. Mi avevano fregato"

Secondo gli eritrei, in Africa vendere identità o documenti, soprattutto agli etiopi, è un business consolidato. Il prezzo di tutta l'operazione in valuta locale varia da 50 mila birr (1.840 euro) a 150 mila birr (5.500 euro circa). Solo la carta d'identità eritrea viene venduta a 900 dollari.

Negli ultimi quattro anni sono state 12.916 le richieste di asilo di eritrei in Italia, ma oltre 100 mila migranti giunti via mare si sono dichiarati eritrei allo sbarco. A luglio il ministro dell'Informazione dell'Asmara, Yemane Gebre Meskel, ha dichiarato alla Bbc che "il numero degli eritrei che lasciano il Paese è esagerato. Fra il 40 e 60 per cento sono dell'Etiopia o di altri paesi del Corno d'Africa"

Yosef, il più anziano dei richiedenti asilo incontrati da Panorama, racconta come "i finti eritrei chiedono dettagli sul mio Paese o sull'inno nazionale, per sostenere la bugia sulla nazionalità. Mi è capitato a Roma al centro della Croce Rossa di via Ramazzini, ora smantellato, e al Cara di Bari"

Munir e Futsum, fisici segaligni, arrivati a novembre, confermano: "Nel centro di accoglienza della capitale, dove viviamo, un finto eritreo ci ha chiesto quanti colori ha la nostra bandiera. Era un etiope che doveva fare l'intervista per la richiesta d'asilo"

Diversi mediatori culturali e interpreti chiudono un occhio o addirittura favoriscono la "truffa" dei profughi eritrei. "Per 15 anni ho fatto da interprete nelle Commissioni per il riconoscimento dell'asilo" racconta un'italo-eritrea. "Tanti tigrini dell'Etiopia hanno ottenuto protezione, dicendo che scappavano da Asmara. Non ho segnalato nessuno all'ambasciata, ma ci accusavano di essere spie del governo eritreo: così hanno assunto interpreti etiopi"

Don Mussie Zerai, il "Mosè dei migranti" com'è osannato da un libro, è da anni un punto di riferimento, soprattutto per gli eritrei che arrivano sui barconi. Dall'agosto scorso è indagato dalla procura di Trapani nell'inchiesta sulle ong per "favoreggiamento dell'immigrazione clandestina". Zerai fa parte di una rete di attivisti eritrei in Europa che sogna il cambio di regime ad Asmara. "Già in Eritrea ho sentito che Zerai poteva aiutarci ad arrivare in Italia" spiega un richiedente asilo, dal 2016 a Roma. E un altro aggiunge: "Prima dell'imbarco in Libia si parlava di questo prete che avrebbe mandato i soccorsi"

Una fonte della Guardia costiera sottolinea che "le richieste di intervento di Zerai sono risultate ben presto un'anomalia ripetuta nel tempo. Le segnalazioni di soccorso dei barconi partiti dalla Libia arrivavano quasi sempre da lui. Il fondato sospetto è che faccia parte di un sistema, di una rete ben collaudata"

Il sacerdote respinge le accuse, sostenendo di "avere sempre agito nella legalità per motivi umanitari". E si è garantito non poche coperture politiche. A iniziare dalla presidente Laura Boldrini, che l'ha accolto alla Camera. Il 3 ottobre, poi, durante la commemorazione del naufragio di Lampedusa del 2013, ha tenuto, da indagato, la celebrazione davanti al presidente del Senato Piero Grasso (oggi anche leader di Liberi e uguali) e al ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli.

Lucio Montanino, Pietro Gallo e Cristian Ricci, imbarcati sulla Vos Hestia di Save the Children come addetti alla sicurezza, hanno dato il via all'inchiesta sulle ong di Trapani, parlando pure delle segnalazioni di un prete eritreo. "Il 10 ottobre 2016 una responsabile di Save the Children mostrò al comandante sul telefonino le coordinate precise di un barcone partito dalla Libia, che non si trovava"

Negli atti della procura una telefonata fra Gallo e Ricci spiega l'episodio: "Poi gli ho detto (agli investigatori, ndr) questa storia di quegli eritrei, che dicevano che un prete aveva mandato il messaggio". E Gallo: "Gli è arrivato il messaggio dal prete eritreo e noi ci siamo recati là e abbiamo trovato il barcone di legno (. ..) e a bordo avevamo il mediatore eritreo"

Don Zerai (proposto per il Nobel per la pace) ha ammesso che avvisava diverse ong, come Medici Senza Frontiere, WatchTheMed e Sea Watch. A Panorama Gallo conferma: "Il personale di Save the Children disse che le coordinate erano arrivate da un prete eritreo in Svizzera". Già, perché don Zerai era stato trasferito da Roma a Friburgo, dove vive una forte comunità eritrea. Prosegue Gallo: "L'impressione era che il barcone fosse stato rimorchiato dai trafficanti in mezzo al mare, che poi hanno inviato la posizione per far arrivare i soccorsi"

Investigatori dell'inchiesta di Trapani fanno sapere che "dopo le feste ci saranno novità sul ruolo ambiguo delle navi umanitarie". Anche una fonte italiana a Tripoli, in prima linea contro il traffico di uomini, conferma: "Pure in Libia è noto che molti migranti eritrei diretti in Italia sono in realtà etiopi. Si spacciano per eritrei sapendo che è facile ottenere l'asilo politico"
(da un'inchiesta di Panorama)




Articolo a cura di
Maris Davis

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18 dicembre 2017

Finisce il 2017 e nella Repubblica Democratica del Congo sono state stuprate 15.000 donne, molte erano bambine

L'ex Zaire è diventato l'inferno delle donne. Dopo aver subito ogni genere di violenza la donne viene anche marchiata come "colpevole". E quindi allontanata dalla famiglia e dalla comunità.

C’è un luogo in questo mondo, dove la pietà è stata fatta a brandelli. L’orrore sembra essersi impossessato di ogni spazio a sua disposizione, un male eterno, che non conosce né fine né limiti, regna come un monarca assoluto. Quel luogo è la Repubblica Democratica del Congo, il Paese dell’Africa centrale apogeo di tutte le tragedie di un intero continente.

Donne violentate e poi abbandonate in quel che resta
della tendopoli di Mugunga 3, nella zona di Goma

È soprattutto nell'Est, nelle regioni del Nord e del Sud Kivu, lungo i bordi del lago omonimo, tra le foreste verdi e le strade rosse e dissestate, sotto i cieli apocalittici che abbracciano le bocche dei vulcani, che il concetto stesso di vivere è stato sovvertito: perché qui l’esistenza è la sopportazione di una crudeltà ontologica, ovunque visibile, che fagocita ogni aspetto dell’intimo e dell’ordinario.

Sei milioni di morti in vent'anni di conflitto, genocidi silenziosi, cessate il fuoco mai rispettati, quasi cinquanta gruppi armati, uomini sacrificati nelle viscere della terra (ovvero nelle miniere di minerali preziosi di cui è piena la regione del Kivu). Massacri etnici e saccheggi, Aids e bambini soldato.

È questo il luogo che ha ospitato la peggiore tragedia della storia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi: questa non è una terra per uomini. Ma, ancora meno, lo è per le donne. Perché la guerra, anzi, meglio le guerre, che qui si consumano in continuazione hanno tanti campi di battaglia, ma uno è quello su cui si concentrano le peggiori atrocità concepite da irregolari, banditi e miliziani: il corpo delle donne.

I piedi sono scalzi, una corda stretta alla fronte regge un sacco di carbone da 60 chili posizionato sulla schiena. Le sagome incedono in fila indiana: sono ombre di giovani madri, ventenni e trentenni, divorate dal peso della miseria. Scendono dalle montagne del Sud Kivu, verso il mercato di Kavumu. Arrivano in paese dopo quattro ore di cammino, depongono il carico di merce e, in cambio, ricevono due dollari. Poi, eccone altre, che già dall'alba hanno posizionato i banchi, con esposta la merce: chi tuberi, chi banane. In ogni dove, nell’Est della Repubblica democratica del Congo, si vedono donne lavorare duramente: nei campi, al mercato, in casa. Il lavoro è una prerogativa femminile. Ma, oltre alla fatica, c’è anche l’orrore a caratterizzare le vite delle donne, sin da quando sono bambine.

Nel piccolo paese, tra le case di terra e fango, si scorgono madri che scappano, rifugiandosi nelle abitazioni. Donne che richiamano i figli, chiudono le porte e spiano i visitatori da dietro i muri. Psicosi e paura in ogni dove: le motivazioni di questo clima si capiscono incontrando Zawada Bagaya Bazilianne, consulente legale che lavora nel villaggio.

«Ciò che è successo qui, dal 2013 al 2016, è un fatto che dovrebbe scioccare il mondo; dovrebbe togliere il fiato a tutti: 44 bambine, dai 2 agli 11 anni, sono state prelevate di notte, condotte nella foresta e poi ripetutamente violentate da uomini armati. Il territorio è pieno di gruppi ribelli e gli autori dell’atrocità risultano essere stati dei miliziani del deputato provinciale Frédéric Batumike, che ora è in carcere con i suoi 74 uomini ed è appena stato processato per violenza sessuale e crimini contro l’umanità». Un processo che si è appena concluso con una sentenza di 12 ergastoli, per altrettanti miliziani del gruppo.

Prosegue la donna: «La ragione? Probabilmente una credenza magica. Le indagini fanno supporre che sia stato uno stregone a dire a questi uomini di violentare delle vergini, perché così facendo avrebbero ottenuto protezione dai proiettili in battaglia e trovato delle vene d’oro, là dove fosse stato versato il sangue delle bambine. Inoltre, in molti credono che il rapporto con una donna illibata sia una cura contro l’hiv»

Elisabeth, undici anni, una delle vittime delle violenze avvenute
nel villaggio di Kavumu,appena fuori da Bakaku, nel Sud Kivu, tra il 2013 e il 2016

Il racconto dell’avvocato è devastante, anche perché la testimonianza, poi, si materializza in un volto, quello di Beatrice, che ha 11 anni, vive con la nonna e cammina additata dalla società per essere stata marchiata dall'atrocità della violenza maschile. Osservarla nella penombra della sua baracca è commozione e impotenza: sola, in silenzio, ma con due occhi neri che urlano con violenza cosa vuol dire essere la figlia di quel mondo orfano dell’elemosina della compassione, dove la tragedia incombe improvvisa e obbliga a una rassegnata accettazione, strappando vita, speranza e anima, fin dalla più tenera età.

Quando esce in strada piove: e Beatrice procede verso il campo di cereali insieme alla nonna. Tutti la guardano, ma lei avanza imperterrita. Da tempo non si volta più indietro: alle spalle c’è il suo passato e nel suo passato c’è la fine del suo vivere.

La piaga dello stupro nell'ex-Zaire ha iniziato a diffondersi alla fine degli anni ’90, in corrispondenza con la seconda guerra congolese. È in quel periodo che si sono registrati i primi casi di abusi sistematici e torture. Donne violentate e poi seviziate: un’arma da guerra che poi è dilagata nel tempo come una metastasi. Tanto che, leggendo le stime delle Nazioni Unite, si scopre che nel 2015 ci sono stati 15mila casi accertati di violenze sessuali.

Donna con bambino all’ospedale Panzi
di Bukavu, nel Sud del Kivu

«Quando hanno iniziato a registrarsi i primi episodi eravamo impreparati e vedevamo donne e bambine arrivare in ospedale totalmente distrutte, con gli organi interni devastati da una barbarie atroce. È stato dopo aver visto quelle donne non potevo rimanere impotente e dovevo cercare di fare qualcosa»

Seduto all'interno del suo ufficio all'Ospedale Panzi di Bukavu, il chirurgo Denis Mukwege racconta la sua storia e la situazione attuale. Il medico congolese, candidato al Nobel per la Pace nel 2014 e vincitore nello stesso anno del premio "Sakharov" del Parlamento Europeo, è uno dei simboli della lotta contro la violenza sessuale.

«Per fermare questo crimine bisogna combattere l’impunità di cui godono gli stupratori; poi occorrerebbe una vera volontà politica, nazionale e internazionale, di mettere fine al saccheggio delle materie prime del nostro Paese e, quindi, ai conflitti per il sottosuolo che dilaniano la nostra nazione. Inoltre, bisogna capire che gli stupri non distruggono solo il fisico di chi li subisce, ma l’intera società. Le donne, dopo essere state abusate, vengono considerate colpevoli per ciò che è successo loro: vengono ripudiate dai mariti e i figli restano abbandonati a se stessi. E a commettere queste atrocità non sono solo dei banditi o dei ribelli, ma anche chi dovrebbe impedire che avvengano»

Basta spingersi sull'altra sponda del lago Kivu, entrare nel Nord Kivu, attraversare la città di Goma, ripercorrere le vie che nel 2012 sono state il proscenio della guerra tra i ribelli filo ruandesi dell’M23 e le truppe governative di Laurent Kabila, per trovare la conferma alle parole pronunciate dal medico. Nel campo profughi di Mugunga, ai piedi del vulcano Nyragongo, vive infatti Amani Bahati. Ha cinquantanove anni e racconta la sua vita con la consapevolezza di essere vittima senza colpa, lontana dalla vergogna del giudizio comune, ma forte dell’orgoglio degli ultimi: «Io sono una donna di quasi sessant’anni e sono stata violentata cinque mesi fa, mentre, insieme ad altre stavo raccogliendo della legna. A stuprarci sono stati dei soldati che indossavano le divise delle Forze armate della Repubblica del Congo»

Il volto non lascia trapelare emozioni e Amani prosegue dicendo: «Io non ho più nessuno, il mio corpo è ammalato e non riesco più nemmeno a lavorare. E sapete la gente come ci chiama? “Le stuprate". Sì, proprio così. Quando una donna in Congo viene violentata poi deve avere la forza di vivere sola con il suo dolore, perché la comunità pensa invece che lei sia semplicemente una prostituta»

Racconta ancora Amani: «Io non ho fatto nulla per meritarmi tutto questo; sono semplicemente andata a lavorare per potermi comprare qualcosa da mangiare. Ma nella foresta mi hanno abusata, più volte, e, dopo il dolore per l’accaduto, ho dovuto sopportare anche gli insulti e lo sfregio da parte della mia comunità. Le persone che mi conoscono mi deridono. Dicono che devo vivere isolata da tutti perché sono un cattivo esempio e che sono una donna facile, che si è andata a cercare quello che le è poi successo. Ecco cosa la gente pensa di me oggi»
(da un reportage de L'Espresso)

City of Joy: il centro nella Repubblica Democratica del Congo gestito dalle ragazze «Dagli stupri seriali alla speranza»


I suoi "Monologhi della vagina" compiranno vent'anni nel 2018. Neanche lei, Eve Ensler, allora era consapevole delle forze che avrebbe messo in campo, né dei confini del movimento globale "One Billion Rising" che di V-day in V-day ha portato milioni di persone nel mondo a battersi per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Non è un momento facile, in molti paesi l’orologio dei diritti sembra andare all'indiero. «La liberazione non è mai una traiettoria dritta, perché il patriarcato è un virus ostinato e persistente» spiega la drammaturga e attivista. «Ma in questo processo stiamo senza dubbio andando avanti». La scelta di trasformare i monologhi in una piattaforma di lotta contro la violenza è venuta naturale.

«Dopo ogni replica incontro tantissime donne che mi raccontano le loro storie. All'inizio mi sembrava bellissimo, ho ascoltato storie di desiderio e soddisfazione sessuale ma nel 90 per cento dei casi erano storie di stupri o abusi. Lo spettacolo ha catalizzato memorie che avevano bisogno di essere condivise. Io stessa sono una sopravvissuta ma non avevo idea delle proporzioni sistemiche del fenomeno. Ho capito che dovevo fare qualcosa»

Tra le cose realizzate, quella di cui va più fiera è City of Joy, il centro a Bukavu in Congo, capitale mondiale degli stupri, raccontato dal documentario di Madeleine Gavis presentato in anteprima italiana a Milano grazie a OBR, 27 ora e We World.

«City of Joy, diretto da Christine Shuler Deschryver, è a Bukavu il mio posto preferito sulla Terra. In Congo negli ultimi 14 anni sono morte oltre 8 milioni di persone, tra l’indifferenza generale. Contro le donne c’è stata una sistematica opera di distruzione fisica e non solo». Terrorismo sessuale, viene definito nel documentario. «City of Joy è un luogo dove le donne trasformano il dolore in forza»

Eve Ensler è in prima linea anche nella denuncia dello scandalo delle molestie. «Quello che sta succedendo può essere un punto di svolta per un vero cambiamento culturale ma lo tsunami dei racconti delle donne deve trasformarsi in un’azione concreta irreversibile, dalla rivelazione alla rivoluzione»

È agli uomini che vuole parlare. «Dove sono gli uomini per bene e cosa stanno facendo? Non credo certo che ogni uomo sia uno stupratore o molestatore. Ma questa non è mai stato una questione femminile, non ci stupriamo da sole. Se gli uomini ponessero al centro della loro esistenza la fine della violenza contro le donne, finirebbe in una notte. Cosa vi trattiene uomini? Cosa state aspettando?»

Repubblica Democratica del Congo, il paese con il più numero di stupri al mondo. Due ogni ora per 24 ore al giorno per 365 giorni all'anno



Articolo a cura di
Maris Davis

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15 dicembre 2017

La mafia nigeriana ha scalzato i Casalesi. Castel Volturno oggi è un ammasso di macerie umane

Viaggio drammatico a Castel Volturno. Case sventrate, che si vedono anche i tondini che il cemento si è consumato, e interi quartieri e frazioni che girarli da soli fanno paura. Spuntano all'improvviso figure sinistre di ragazzi.


Il fotografo sociologo distribuisce le macchinette fotografiche usa e getta ai “pazienti” dell’ambulatorio di Emergency, a Castel Volturno. E da giorni fotografa donne nigeriane costrette a prostituirsi per un progetto legato alla Fondazione di Gino Strada.

Andrea Kunkl, il fotografo, ha uno sguardo molto penetrante e una voce da affabulatore. Quello che lo ha colpito davvero è il ritorno della regina della droga nelle piazze, la signora eroina pura. Andrea invita i giornalisti ad andare a farsi un giro nell'albergo dei tossici.

Di Castel Volturno il sociologo di Emergency dice che rappresenta «Il futuro dell’Europa». Una visione suggestiva. Secondo un censimento del comune ci sono quindicimila stranieri e venticinquemila residenti locali. E degli stranieri undicimila sono clandestini, quattromila i regolari. Il censimento è fatto sulla base della produzione quotidiana di rifiuti solidi urbani e quindi sulla stima di quanti rifiuti producono singolarmente i cittadini. E c’è da scommettere che in realtà i numeri di presenze nere sono molto più significativi.

A Castel Volturno era così anche alla fine degli anni Ottanta, ma con una differenza. Castel Volturno è sempre stata un po’ “Mamma Africa”. Solo che in quella fine degli Ottanta, i neri erano i braccianti clandestini assoldati da caporali spietati, spesso nordafricani, che li portavano alla rotonda di Villa Literno per fargli fare le giornate nelle campagne per la raccolta dei pomodori.

Questi stessi ragazzi poi si trasferivano nel foggiano, sempre per i pomodori e a settembre partecipavano alla raccolta delle mele o alla vendemmia dell’uva in Trentino.

Era una immigrazione anche colta, di studenti senegalesi, di rifugiati congolesi o sudafricani. E poi un po’ alla volta, con ogni ventata di arrivi, si sedimentava una presenza stanziale di migranti. Soprattutto nigeriani e ghanesi.

Davvero entrando nell'ambulatorio di Emergency si capisce il lavoro prezioso e insostituibile di questa organizzazione. Puoi non essere d’accordo su certe posizioni radicali, ma Gino Strada è una medaglia al valore civile di una Italia che per fortuna esiste e non abbassa la schiena.

Qui arrivano donne e bambini per la visita ambulatoriale o per ottenere dei farmaci. C'è anche una ragazza nigeriana con una sorta di libretto sanitario rilasciato proprio da Emergency.

Emergency a Castel Volturno usufruisce anche di un camper che con la mediatrice culturale nigeriana gira per i luoghi dove le ragazze vittime della tratta si prostituiscono. I mediatori culturali offrono alle ragazze in strada un thermos di thè o preservativi, o solo una preghiera. Sono le stesse ragazze che poi sono anche pazienti dell’ambulatorio.

Castel Volturno è tante cose. Come la coabitazione per convenienza tra bianchi e neri. Raramente sono accaduti episodi di intolleranza “razziale”. Semmai le stragi di Pescopagano e poi quella del settembre del 2008, di Baia Verde, dove il gruppo di fuoco dei Casalesi guidato da Giuseppe Setola fece fuori sei migranti nigeriani e ghanesi, furono provocate per riaffermare il controllo dei Casalesi nella gestione delle piazze della droga.

Un esercente impegnato nel fronte dell'anti-racket racconta che «oggi i Casalesi sono in difficoltà come se fossero scomparsi, decimati dalle retate e dai pentimenti. Sul territorio si avverte la presenza solo della microcriminalità»

E poi c’è la droga e la prostituzione che sono gestite dalle mafie nigeriane. Un tempo, con i primi processi ai Casalesi, il pm Lucio Di Pietro, scoprì anche che il clan Bidognetti si faceva pagare il pizzo per occupazione di suolo “pubblico”, cioè si faceva pagare il pizzo dalle ragazze nigeriane che si prostituivano sulla Domiziana.

Oggi questo tipo di concorrenza (o di pace armata) non c’è più. Recenti inchieste della procura distrettuale antimafia di Napoli hanno svelato l’esistenza della mafia nigeriana (c’è stata anche una sentenza che ha riconosciuto la mafiosità di queste organizzazioni).

Dunque, pochi conflitti razziali nella capitale dell’Europa che sarà, per dirla con il fotografo Kunkl. Ma tanta disperazione e degrado. Castel Volturno è un ammasso di macerie umane e fisiche. Case sventrate, dove si vedono anche i tondini di ferro perché il cemento si è consumato. E in interi quartieri e frazioni sono off-limits. Girarli da soli fanno paura e non è consigliato. È in vigore un coprifuoco permanente e se attraversi questi territori spuntano all'improvviso figure sinistre di ragazzi, donne, che fanno le vedette. Che controllano il territorio. Proteggono le loro case, i “centri benessere” nigeriani dove puoi mangiare, fumare uno spinello, bere, e fare sesso a pagamento con una ragazza di colore. Insomma un ammasso di tuguri della disperazione.

Castel Volturno è un pezzo di Nigeria nel cuore dell’Europa. Da qui passano tutti. Perché Castel Volturno? «Perché le case costano poco», risponde un ragazzo nigeriano. Fa sorridere ma lascia un senso di inquietudine. Già, perché proprio Castel Volturno?




Articolo a cura di
Maris Davis

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04 dicembre 2017

Delta del Niger. Le drammatiche conseguenze delle fuoriuscite di petrolio sui bambini

Uno studio svizzero ha stimato le conseguenze sui neonati delle fuoriuscite di petrolio che si verificano in Nigeria. Le conclusioni sono agghiaccianti.

Impianto petrolifero nel Delta del Niger di proprietà della Shell

Le fuoriuscite di petrolio nel Delta del Niger, in Nigeria, sono probabilmente responsabili, ogni anno, della morte di 16mila neonati, che non riescono a superare il loro primo mese di vita. A stimare per la prima volta, in termini di decessi infantili, le conseguenze sanitarie della dispersione di greggio nell'ambiente della nazione africana è uno studio realizzato dal Center for Economic Studies di Monaco (CESifo) e dall'Università di San Gallo, in Svizzera.

Tre anni di lavoro per completare lo studio
I ricercatori hanno condotto una vastissima analisi, esaminando per tre anni le statistiche fornite dal governo nigeriano. Innanzitutto quelle relative alla geolocalizzazione delle circa seimila fuoriuscite di petrolio nel Delta del Niger da oleodotti e altre infrastrutture, recensite ufficialmente dalle autorità locali tra il 2005 e il 2015. Quindi i dati sanitari relativi a 23.364 madri, delle quali 2.744 vivono a meno di dieci chilometri da un’area inquinata.

Le conclusioni alle quali sono giunti gli esperti non lascerebbero spazio alle interpretazioni. L’esposizione degli adulti alle fughe di petrolio, nei cinque anni precedenti al concepimento di un bambino, raddoppia il rischio di mortalità infantile nei primi 28 giorni di vita. Portando il dato, in media, a 76 neonati ogni mille nascite (valore che aumenta ulteriormente nelle zone più vicine agli incidenti). Di qui il calcolo di 16mila neonati morti soltanto nel 2012. Una stima che, secondo i ricercatori, si può applicare con ogni probabilità anche agli anni precedenti e a quelli successivi.

5,3 milioni di bambini nati in Nigeria nel 2012: l’8% vicino ad aree inquinate
Non ci attendevamo dei risultati simili, soprattutto a cinque anni da una fuga di petrolio. Le conseguenze, per il paese più popoloso dell’Africa, sono scioccanti" ha dichiarato Roland Hodler, uno degli autori dello studio. "Basti pensare che, nel 2012, sono nati 5,3 milioni di bambini in Nigeria e che ben l’8 per cento è stato concepito da genitori che abitano in prossimità di una fuga di idrocarburi"

Se nulla verrà modificato dalle compagnie petrolifere e, soprattutto, dal governo", ha sottolineato Audray Gaughran, di Amnesty International, al quotidiano francese Le Monde, "il tasso di mortalità è destinato a rimanere identico, se non a peggiorare. Il rapporto pone delle questioni particolarmente serie in merito al comportamento delle multinazionali, che non hanno mai valutato le conseguenze delle loro attività sulla salute degli abitanti

Il governo vuole aumentare gli stanziamenti per il Delta del Niger
L’esecutivo nigeriano deve introdurre un sistema indipendente di vigilanza al fine di poter informare gli abitanti dei rischi che corrono e imporre alle imprese di assumersi la responsabilità delle catastrofi ambientali che provocano



Il presidente nigeriano, Muhammadu Buhari, ha proposto di aumentare gli stanziamenti per il Delta del Niger nel corso del 2018. Ciò soprattutto per finanziare l’immenso progetto di bonifica della regione, deturpata da decenni di attività estrattive. Per completare quella che passerà alla storia come la più vasta operazione di decontaminazione mai realizzata al mondo, ci vorranno tra circa 30 anni e un miliardo di dollari.

D’altra parte, per comprendere a che punto l’area sia stata devastata, è sufficiente considerare un solo dato: quello relativo al volume annuale stimato delle fuoriuscite di petrolio. Ogni anno vengono sversati nel terreno e nelle acque dei fiumi 240mila barili, ovvero 38 milioni di litri. È come se, ogni 365 giorni, una petroliera colasse a picco nel Delta del Niger. Cosa che accade, regolarmente, da circa 60 anni.

Studio svizzero sulle conseguenze delle fuoriuscite di petrolio nel Delta del Niger sui neoanati

Foundation for Africa ha attivato alcune pagine web in continuo aggiornamento per mantenere viva l'attenzione del mondo sul gravissimo problema dell'inquinamento nel Delta del Niger.
Una devastazione causata dallo sfruttamento indiscriminato, dall'arroganza delle compagnie petrolifere e, soprattutto, dall'indifferenza di tutti i governi nigeriani nei confronti delle popolazioni del Delta che si sono succeduti dalla Guerra del Biafra fino ad oggi.

Niger Delta



Articolo a cura di
Maris Davis

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01 dicembre 2017

La Guerra dimenticata della Repubblica Centrafricana. Stupri e rischio genocidio

Stupri e rischio genocidio nella guerra in Repubblica Centrafricana. Migliaia di donne sono vittime di stupri e violenze nella guerra in corso da cinque anni nella Repubblica Centrafricana. Lo rivela un rapporto di Human Rights Watch. Mentre le Nazioni Unite parlano di «segnali di genocidio evidenti»


Josephine, 28 anni; Valerie, 38 anni; Arlette, 60 anni; Alice, 21 anni; Zeinaba, 12 anni: sono solo alcune delle migliaia di donne vittime di stupri e violenze in Repubblica Centrafricana durante il conflitto degli ultimi 5 anni.

Violentate di fronte ai propri figli e mariti, costrette a vedere morire i propri cari o a diventare schiave sessuali: è il destino delle donne che in Repubblica Centrafricana incontrano le milizie cristiane “anti-balaka” o quelle degli ex ribelli musulmani Séléka, i due principali gruppi armati nella guerra scoppiata nel dicembre 2012, dopo che i ribelli avevano accusato il governo del presidente François Bozizé di non rispettare gli accordi di pace firmati nel 2007 e nel 2011.

Schiave sessuali, donne stuprate e picchiate

Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto che raccoglie le testimonianze di 296 donne e ragazze che denunciano brutali violenze sessuali avvenute tra il 2013 e la metà del 2017. Il titolo del rapporto riprende una delle dichiarazioni delle vittime, “Ci hanno detto che eravamo loro schiave”, e riporta le drammatiche testimonianze di donne e ragazze tra i 10 e i 75 anni.

Come quella di Jeanne, 30 anni, catturata con altre 9 donne (alcune di soli 16 anni) da un gruppo di 20 miliziani Seleka, vicino a Bambari, nel giugno 2014. Jeanne è rimasta prigioniera per 6 mesi ed è stata stuprata tutti i giorni, da soldati diversi. Come le altre donne, se opponeva resistenza veniva picchiata. Non era solo una schiava sessuale: come le altre “mogli”, doveva raccogliere la legna per il fuoco, andare a prendere l’acqua, cucinare.

O come Zeinaba, che aveva solo 12 anni quando gli anti-balaka la rapirono. Anche lei è stata stuprata ogni giorno, con minacce di morte nel caso si fosse rifiutata. La sua prigionia è durata una settimana, poi è riuscita a scappare e a trovare rifugio in un ospedale, nella città di Boda. Racconta di aver spiegato di essere stata rapita dai miliziani, ma di non essere riuscita a parlare delle violenze subite.

Lesioni, gravidanze, ustioni: i danni provocati dai traumi


La condizione di schiava sessuale è comune a quasi tutte le storie, con una prigionia che per alcune è durata fino a 18 mesi. Molte donne raccontano di essere state violentate anche da più uomini insieme e di essere state picchiate e torturate. Molte portano visibili le conseguenze di lesioni interne, ustioni, gravidanze frutto delle violenze, fratture non curate e denti rotti.

Tutte soffrono le conseguenze dei traumi subiti: depressione, ansia, crisi di panico. Come Zeinaba, non tutte denunciano quanto successo: temono di essere ripudiate dai mariti e dalle loro famiglie, che le considerano le “mogli” dei miliziani, e sanno che è molto difficile ottenere giustizia per quanto subito.

Stupro come tattica di guerra: i crimini restano impuniti

Quasi sempre gli abusi sono reati punibili dalla legge della Repubblica Centrafricana, spesso costituiscono anche crimini di guerra, a volte ci sono gli estremi per considerarli crimini contro l’umanità.

Nonostante in molti casi documentati la violenza sessuale costituisca una forma di tortura, lo stesso rapporto sottolinea come ad oggi nessun membro delle milizie sia stato arrestato o incriminato per violenze sessuali. Eppure è evidente che lo stupro è una tattica di guerra: i comandanti tollerano le violenze sessuali, se non addirittura le ordinano.

Le aree dove Human Rights Watch ha documentato gli stupri

«I gruppi armati stanno utilizzando la violenza in un modo brutale e calcolato per punire e terrorizzare le donne e le ragazze», ha dichiarato Hillary Margolis, attivista di Human Rights Watch che si occupa di diritti delle donne.

«Ogni giorno, le sopravvissute vivono con le devastanti conseguenze dello stupro, e la consapevolezza che i loro aguzzini camminano liberi, spesso in posizioni di potere, senza aver affrontato finora alcuna conseguenza per le loro azioni»

Per questo è impossibile avere dei dati certi sul numero di violenze avvenute: la stessa Human Rights Watch afferma di aver riportato un numero esiguo di casi rispetto alla realtà.

Onu: rischio genocidio nella Repubblica Centrafricana

«La Repubblica Centrafricana è molto lontana dall'attenzione della comunità internazionale. Il livello di sofferenza del popolo, ma anche le tragedie subite dagli organismi umanitari e dai facilitatori di pace meritano una maggiore solidarietà e attenzione», sono parole pronunciate dal segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, che a fine ottobre si è recato nel paese per una visita di qualche giorno.

Dopo aver incontrato i vertici della missione Onu Minusca (United Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in the Central African Republic), Guterres ha incontrato politici, rappresentanti della società civile e vittime di abusi. Prima di ripartire ha promesso di rafforzare la capacità della Minusca e ha rinnovato l’appello alla pace.

La visita del segretario generale delle Nazioni Unite segue quella di Adama Dieng, consigliere speciale per la prevenzione del genocidio, che, al termine di un sopralluogo in alcune zone devastate dalla guerra, ha chiaramente parlato di «segnali di genocidio evidenti»

Quello che è certo è che la popolazione civile è ormai allo stremo. Il numero di rifugiati e sfollati in fuga dalla violenza ha superato il milione di persone, quasi un quarto della popolazione; la metà degli abitanti dipende ormai dall'aiuto umanitario; secondo la Banca Mondiale, più di tre quarti dei 4,7 milioni di centrafricani sono in condizione di povertà estrema.

They Said We Are Their Slaves
Sexual Violence by Armed Groups in the Central African Republic
Human Rights Watch





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Articolo a cura di
Maris Davis

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Un Mondo Migliore è vicino, lo sento arrivare


In questo mondo governato dai ricchi, dalle multinazionali, dalla finanza e da interessi sovranazionali più che dagli interessi della gente comune, è necessaria una rivoluzione delle idee che inizi dal basso, da ognuno di noi.

Dobbiamo rifiutarci di "comprare" quello che loro ci vogliono vendere: le loro idee del mondo, la loro versione della storia, le loro guerre, le loro armi, le loro falsità. Non dobbiamo per forza restare inquadrati nelle loro ideologie, nelle loro religioni e nelle tradizioni che ci opprimono e ci impediscono di pensare con la nostra testa.

Dobbiamo tornare bambini, uscire dai paradigmi in cui ci vogliono inquadrare, dobbiamo vedere il mondo con speranza e credere in un "mondo migliore", dobbiamo smetterla di essere pecore che seguono a testa bassa un "duce". Noi non siamo pecore sottomesse.

Ricordatevi che noi siamo in molti e loro sono pochi. Ricordatevi che loro hanno bisogno di noi, più di quanto ne abbiamo noi di loro.

Un altro mondo, un "Mondo Migliore", non solo è possibile, ma sta già arrivando. Nelle giornate calme lo sento arrivare.

Un progetto che vede le persone come persone e non come numeri, una medicina che non cura solo il corpo ma anche l’anima, un progetto fatto di unione e non di separazione, un’istruzione che mira a scoprire il talento di ogni studente e a direzionarlo verso il suo scopo, un’agricoltura che ha rispetto per la nostra madre terra, un risveglio dell’intera umanità che ci accompagni verso pensieri di amore e fratellanza, e non verso odio e razzismo.

La possibilità di un reddito di dignità a tutti affinché venga riconosciuto il valore di ogni essere umano. La possibilità di lavorare per tutti .. Un progetto possibile.

Non possiamo più permettere che i ricchi diventino sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.

Non possiamo più permettere che le 100 persone più ricche del mondo possiedano una ricchezza pari al PIL di tutto il continente africano.

Non possiamo più permettere che nell'Africa Sub-Sahariana, considerata una delle regioni più povere del mondo, ci sia comunque il 7% della popolazione che possiede il 90% della ricchezza mentre la metà della popolazione sopravvive con un dollaro al giorno.

Non è più possibile che il 20% della popolazione mondiale possieda l’82% della ricchezza globale, e che il 60% della popolazione viva ai limiti o al di sotto della soglia di povertà.

Non è più possibile che 10 (dieci) multinazionali controllino l’intero ciclo del cibo e degli alimenti, dalla semina (magari rubando terre all'Africa), e fino alla distribuzione nei supermercati, e che siano loro a decidere per noi cosa dobbiamo “mangiare”, magari cibo transgenico o prodotti agricoli fatti crescere con la chimica.

"I ricchi dovrebbero vivere più semplicemente affinché i poveri possano semplicemente vivere"
(Gandhi)

Il mondo migliore non è solo la società ideale che immaginiamo, non è solo nelle comunità in cui abbiamo deciso di vivere, il mondo migliore è soprattutto dentro di noi, è nelle piccole cose che facciamo per gli altri, nella nostra rettitudine, nel nostro Amore e nelle nostre Speranze.

Qualsiasi cosa facciamo per migliorare noi stessi, o per aiutare gli altri con “Etica” e “Altruismo”, è un piccolo fiore che contribuisce a diffondere il profumo di un “Mondo Migliore

Due parole, solo due parole per cercare quel mondo migliore che è già dentro di noi, “Etica e Altruismo

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Articolo di
Maris Davis

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