30 giugno 2017

Anche la CISL a favore della legge che punisce i clienti delle prostitute

Qualcosa si muove anche al di fuori dell'associazionismo per sostenere la proposta di legge che definisce REATO "l'acquisto di prestazioni sessuali"


La Cisl raccoglie le firme dei lavoratori per sostenere la proposta di legge in Parlamento. «Chi va con una prostituta deve pagare come chi la sfrutta». Lo ha detto Annamaria Furlan, leader della CISL, durante il XVIII Congresso Confederale del sindacato.

«Tante volte mi viene voglia di gridare basta. Basta violenze. Basta discriminazioni. Basta sfruttamento. La missione di un sindacato è anche questa. Come ci ha chiesto l’altro ieri papa Francesco, è stare vicini agli ultimi, alle persone più deboli, più vulnerabili. È prenderle per mano e battersi al loro fianco. Basta donne sfruttate, violentate, picchiate: sono sicuramente la periferia a cui dobbiamo guardare con impegno e intensità»

Annamaria Furlan, segretario generale CISL
Annamaria Furlan parla sottovoce, continuando a tenere gli occhi fissi sui dati che si accavallano in uno studio della 'Papa Giovanni XXIII', l’associazione fondata da don Oreste Benzi (e ora guidata da don Aldo Buonaiuto) da sempre in prima linea nella lotta alla prostituzione. Centomila donne in Italia costrette a vendere il loro corpo. Il 65 per cento lo fa per strada. Il 37 per cento ha tra i 13 e 17 anni. La segretaria della Cisl legge e scuote la testa.

«Mi ha sempre fatto male vedere queste ragazzine schiavizzate. Una piaga della società di fronte alla quale troppo spesso ci si volta dall'altra parte. Si fa finta di nulla. Come è possibile non provare indignazione? Come è possibile tutta questa indifferenza?». Per qualche istante Furlan resta silenziosa. Pensa alle strade della sua Genova. A quelle di Roma. Alle ragazzine con i sorrisi maliziosi dietro i quali si apre una voragine di tristezza. Pensa al dramma della prostituzione e a una «società troppo spesso indifferente, a istituzioni distratte, a una politica svogliata»

Pensa e, senza cambiare tono di voce, lancia la sfida sua e del sindacato che guida: «Serve una legge che punisca i clienti. Serve fermare la domanda: chi va con una prostituta deve pagare come chi la sfrutta». Furlan prova ad allontanare l’emozione allargando la riflessione al congresso della Cisl. Ma il tema scelto ci tiene inchiodati al dramma delle donne sfruttate: Per la persona, per il lavoro. «C’è molto papa Francesco in queste sei parole», ripete Furlan che poi cita a memoria Bergoglio: «Sfruttare la persona è un crimine, sfruttare una donna lo è ancora di più. Significa distruggere l’armonia»

Donne costrette a prostituirsi. Donne vittime di violenze. Lo sfruttamento ha tanti volti
Tutti terribilmente amari. Così diversi e così drammatici. Penso sempre alle braccianti della Puglia. Alle prepotenze dei 'caporali'. Alle vite di queste donne insultate, maltrattate, costrette a lavorare anche venti ore di fila. Che Paese è questo dove la dignità della donna può essere calpestata in maniera così scellerata? Tante, troppe, ingiustizie. C’è un mondo femminile ancora discriminato in troppi luoghi luoghi di lavoro dove ancora si fatica ad accettare che una donna possa avere le stesse possibilità di un uomo di fare carriera e di guadagnare.

Tutti gli studi confermano questi dati, ma c’è un Paese sordo, una politica sorda, una società sorda. E le donne sempre penalizzate. Opportunità per le donne? Una classifica ci relega al centoundicesimo posto su 145 Paesi.

I dati tante volte pesano più delle parole. L’occupazione delle donne è al 48,5 contro il 66,9 degli uomini. No, non è normale. L’Italia cerca di rialzare la testa e invece una partecipazione femminile al lavoro così bassa ostacola lo sviluppo socio economico. Soluzioni? Proviamo a ripristinare forme di sgravi fiscali o incentivi all'assunzione di donne giovani. Concentriamo l’attenzione sulle under 35 e sulle neo mamme. Qualcosa si può, anzi si deve fare. Per le donne italiane e per quelle immigrate. Promuoviamo momenti di orientamento e di formazione: possono agevolare l’ingresso nel mercato del lavoro e contrastare le troppe forme di discriminazione.

Ci sono anche le giovani prostitute strappate alla strada dall'Associazione Papa Giovanni XXIII
C’è una violenza che scuote la società e che inchioda il Parlamento alle proprie responsabilità: la lotta al femminicidio ha dato risultati. Ma c’è una violenza 'silenziosa' e ugualmente terribile: lo sfruttamento di giovani corpi. L’uomo che tira l’acido sul volto di Lucia Annibali, sfregiata quattro anni fa con l’acido dal suo ex, e quello che costringe una ragazzina a prostituirsi non sono diversi.

C’è in Parlamento una proposta di legge che parla chiaro. Punire i clienti per fermare la prostituzione. La Cisl è pronta. Raccoglierà firme in ogni posto di lavoro per sostenerla. Per darle forza. Chi va con una prostituta si rende complice di un crimine e vogliamo una Cisl capace di ribellarsi, di alzare la voce, di lanciare una sfida a viso aperto, di gridare 'basta ipocrisia e basta indifferenza'. È una scelta pensata, fortemente pensata. Non c’è un calcolo, c’è solo l’amore per la persona.

Ci ho pensato e mi sono detta 'avanti, è una battaglia giusta'. È commovente il lavoro della 'Giovanni XXIII': non si può fare finta di nulla quando esseri umani vengono trattati come merce. Comprati e venduti. Utilizzati come manodopera o sfruttati sessualmente. Voglio una sollevazione della Cisl. Voglio un sostegno forte e contagioso a una campagna per cambiare la legge.

Non mi convince l’idea che ci possa essere la libertà sessuale di chi va con le prostitute. È una “libertà” esercitata nei confronti di una persona che non è libera e non ha scelta. Ho visto quelle ragazze. Le ho ascoltate guardandole negli occhi: ragazzine strappate ai loro Paesi, piccole incapaci di difendersi. Non credo a una prostituzione libera. Credo a una catena di sopraffazioni che va spezzata. È la domanda che fa il mercato, che dà impulso alla tratta e allo sfruttamento. È la domanda che alimenta la schiavitù.

In tanti Paesi del Nord Europa dove è stata introdotta una legge che punisce il cliente c’è stata una bella rivoluzione. In Svezia il numero di persone che si prostituiscono è diminuito del 65 per cento, in Norvegia del 60. E parallelamente si è anche modificata l’opinione pubblica: prima era a favore della criminalizzazione del cliente il 30 per cento della popolazione, oggi il 70. Ecco perché dico 'è ora di farlo'.

Insieme a tutte le forze sane del Paese. Insieme a chi, con noi, dice basta ipocrisia


I numeri dello sfruttamento
(Fonte Comunità Giovanni Paolo XXIII)
In Italia si stimano intorno a 9 milioni i clienti di prostitute, 2,5 milioni i “fruitori” abituali di prestazioni a pagamento.
Tra 100 e 120.000 il numero totale delle donne vittime di sfruttamento della prostituzione, delle quali il 37% sono minorenni.
il 65% si prostituiscono in strada
il 35% si prostituiscono nei locali (alberghi, appartamenti, nightclub e privé)
Nazionalità
Nigeria 36%
Romania 22 %
Albania 10,5%
Bulgaria 9%
Moldavia 7%
Ucraina 6%
Cina 5%
altri paesi dell’Est 4,5%
Età
37% dai 13 ai 17 anni
52% dai 18 ai 30 anni
11% sopra i 30 anni
Tipologia delle violenze subite
56% violenze sessuali
32% violenze fisiche
12% violenze psichiche
I Clienti
23% celibe
77% sposato
Frequenza delle prestazioni a pagamento
15% ogni settimana
75% ogni due settimane
10% ogni mese
Tipologia della prestazione
30% rapporti protetti
70% rapporti non protetti
Richieste del cliente
43% prestazione sessuale normale
30% prestazione sessuale particolare
10% sesso di gruppo
11% conversazione
6% maltrattamenti
Ceto sociale del cliente
56% medio alto
21% alto
13% medio basso
10% basso
Età del cliente
43% 40-55 anni
21% 25-39 anni
17% 56 in poi
14% 18-24 anni
5% minorenni


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Articolo a cura di
Maris Davis

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27 giugno 2017

Repubblica Democratica del Congo. L'inferno del Coltan e la manodopera della disperazione

Il Coltan è un minerale indispensabile per i nostri smartphone. Si estrae nelle miniere della Repubblica Democratica del Congo che si trovano quasi tutte nella regione del Kiwu. Miniere ormai controllate dai "signori della guerra", che danno «lavoro» a milioni di schiavi «volontari»

"Passo praticamente 24 ore dentro il tunnel, entra la mattina e esco la mattina dopo"
Testimonianza di un 14enne raccolta dall'Unicef

Il coltan è un minerale di superficie e per estrarlo non bisogna fare costosi tunnel di chilometri. È raro, si trova in Congo (Repubblica Democratica) e in pochi altri Paesi. E soprattutto è indispensabile per i nostri smartphone e per l’industria aerospaziale. Facile, prezioso, utile: tre vantaggi che ne fanno il bancomat della giungla, disponibile per chi abbia un esercito privato, sia guerrigliero o militare corrotto.

La manodopera della disperazione è semplice da «creare». Basta razziare nelle province vicine, uccidere, violentare. La gente scapperà e verrà a scavare proprio per il «Signore della guerra» che controlla il coltan. Senza che lui investa un centesimo per allestire la miniera, la gente si organizzerà in clan di 30-40 persone. Gli uomini estrarranno le pietre con le vanghe, le donne e i bambini le laveranno a mano nell'acqua e le trasporteranno al mediatore più vicino. A volte cammineranno anche due giorni nella foresta con trenta chili sulle spalle.

I minerali verranno imbarcati per la Cina o la Malesia dove i due metalli del coltan (columbine e tantalio) verranno separati per essere venduti all'industria high tech. A ogni passaggio il Signore della guerra prende una tangente e si arricchisce sulla miseria altrui. Può essere un ribelle, un colonnello dell’esercito o un poliziotto.

Il Congo è pieno di schiavi volontari al servizio di uomini forti. Sono milioni, senza neppure la dignità di una statistica attendibile: bambini analfabeti, orfani, condannati tramandare da una generazione all'altra la maledizione delle miniere. Rapporti Onu parlano di 11 milioni di morti legati al controllo di questo business.

Di chi è la colpa? Di un Paese troppo ricco di risorse e troppo povero di capitale umano. Dell’era coloniale. Del post colonialismo. Del neoliberismo. Della corruzione. Del fallimento dello Stato. Dei nostri smartphone e missili spaziali. Quasi l’80 per cento del minerale per i telefonini proviene dalla Repubblica Democratica del Congo, l’intero Paese invece di arricchirsi ne è sconvolto, diventa schiavo, e per di più boicottare l’uso del prezioso minerale sarebbe come condannare alla fame milioni di persone.

Testimonianze .. Suor Catherine delle sorelle del Buon Pastore, in missione a Kowesi, nell'ex provincia congolese del Katanga si sforza di spiegare la corsa al coltan. «La gente non scava nelle miniere artigianali per diventare ricca. Lì si abbrutiscono, si prostituiscono, si ubriacano, si ammalano e muoiono. Chi comincia sa già quale sarà il suo destino. Eppure arrivano di continuo. C’entra il fatto che sono stati scacciati dalle loro terre, ma anche altro, come spiegare a un europeo?. Ecco forse così potrete capire: lo fanno perché non hanno le galline. Questa gente ha fame, in un paradiso ricco d’acqua e piante meravigliose come il Congo, non sono in grado di coltivare o allevare un pollo, sanno solo scavare»

«È la maledizione della ricchezza» sostiene il funzionario Onu Maurizio Giuliano, grande conoscitore dell’Africa. «Da 20 anni a questa parte sono quasi scomparse per ragioni politiche le grandi compagnie minerarie che offrivano un certo welfare ai loro operai. C’era paternalismo sì, ma la privatizzazione delle concessioni in assenza di un aiuto alternativo ha distrutto la coesione sociale. Signori della guerra controllano decine di migliaia di lavoratori in schiavitù volontaria»

Stupri di massa e abusi di ogni genere sono la regola. E chi non scava o spara, muore di fame

Bambini di 5 anni in miniera, bambine di 11 nei bordelli delle bidonville minerarie, madri abbandonate con 5-10 figli che muoiono di fatica e malattia a trent'anni, orfani, schiavi volontari per un uovo al giorno.


Questi minatori «artigianali», dentro la giungla, guadagnano 3-4 dollari al giorno. Donne e trasportatori 2. I bambini anche meno. «Però così riescono almeno a mangiare. Il cibo in Congo è carissimo perché importato. Uova dallo Zambia, fagioli dalla Namibia, cavoli e mele dal Sud Africa»

Chi compra il minerale dai minatori è spesso lo stesso che gli vende il cibo riprendendosi gli spiccioli che gli ha appena dato. «Basterebbero delle galline a dare un’alternativa»

Per aiutare i bambini minatori della Repubblica Democratica del Congo sarebbe, forse, utile un altro Leonardo Di Caprio. Il suo film Blood Diamond (Diamanti di sangue), ambientato in Sierra Leone, aiutò a incrinare il legame tra pietre preziose e guerre perché da sempre si cercano gemme per comprare armi, ma è con le armi che ci si impossessa delle gemme.

Lo stesso sta accadendo con i metalli per l’High-Tech. Anche grazie a quel film le regole internazionali sono cambiate in meglio. Il commercio dei diamanti non si è convertito in un esercizio di virtù, ma almeno chi vuole comprare pietre pulite oggi può farlo. Vale lo stesso per gli smartphone che abbiamo in tasca?

Da due anni a questa parte, la catena di approvvigionamento dei metalli rari ha ricevuto maggiore attenzione. È entrata in vigore la riforma di Wall Street, la Dodd-Frank Act, che impone di controllare che le materie prime non alimentino i conflitti della Repubblica Democratica del Congo. Ci sono stati dei passi avanti, ma resta grande il problema del contrabbando e delle milizie.

Karen Hayes è la direttrice del programma «dalla miniere al mercato» della Ong Pact finanziata dalle industrie che usano il coltan e dal governo olandese. «Dal 2010 abbiamo catalogato 800 miniere, mappato le zone di conflitto, distribuito computer e insegnato agli Stati a sorvegliare la catena dell’export. Oggi possiamo dire che le armi sono scomparse dalle miniere, anche se restano i bambini minatori e la povertà». Pochi però, vedono come Pact, il bicchiere mezzo pieno. Amnesty International sostiene invece che la Dodd-Frank Act ha solo scalfito il problema e la maggioranza delle società degli smartphone non ha neppure tentato di ottemperare alla legge soprattutto per la parte del business che avviene nella giungla.

Una compagnia privata, la Fairphone, si vanta di produrre esclusivamente telefonini «senza guerra». «Controlliamo direttamente tutte le fasi dell’approvvigionamento. Così evitiamo il boicottaggio e non danneggiamo l’economia del Paese basato sulle miniere». Dalla parte opposta dell’etica del lavoro, società cinesi, kazake o comunque non quotate a Wall Street, ignorano qualsiasi procedura e comprano coltan da chiunque senza voler sapere come l’ha estratto. Il problema è enorme come la RD del Congo, 80 milioni di abitanti, un governo conteso e un livello di scolarità che invece di crescere diminuisce.

«Non è più solo un problema di sfruttamento internazionale. È peggio oggi il fallimento dello Stato. Le autorità hanno assunto una forma violenta e predatoria. Le istituzioni si mostrano efficienti quando distribuiscono concessioni minerarie ai famigliari del potere e le proteggono con la forza. Quando invece si tratta di difendere i diritti basici delle persone, dai bambini, alle donne, ai lavoratori, lo Stato smette di esistere. Il risultato sono intere generazioni perdute, un popolo ridotto in schiavitù»


L’Unicef stima che siano almeno 40mila i bambini sfruttati nelle miniere. “Solo nell'ultimo anno sono morti ottanta bambini minatori, questo mentre le aziende produttrici di apparecchi elettronici fanno profitti stimati in 125 miliardi di dollari annui e non riescono a dire dove e in che condizioni di lavoro si procurano le materie prime

"Passo praticamente 24 ore nei tunnel. Arrivo presto la mattina e vado via la mattina dopo. Riposo dentro i tunnel. La mia madre adottiva voleva mandarmi a scuola, mio padre adottivo invece ha deciso di mandarmi nelle miniere"

Sei milioni di morti in 20 anni nel disinteresse generale e dei media internazionali, prima per colpa della guerra civile, poi per per colpa delle milizie per il controllo delle miniere nel Kiwu, o per colpa dello stesso esercito regolare. Oggi non è più una guerra, ma solo pura violenza, una violenza usata solo per esercitare il potere e la paura su una popolazione che, dopo 20 anni, si è quasi abituata a tutto questo disastro.

Dalla scorsa estate un nuovo fronte di violenze si è aperto nel Kasai, dopo che il presidente Joseph Kabila si è rifiutato di lasciare il potere alla fine dei due mandati previsti dalla costituzione.

La Repubblica Democratica del Congo detiene anche un altro triste primato, è il paese con il più alto numero di stupri al mondo

Il conflitto nella Repubblica Democratica del Congo
The Truth Unveiled
Attenzione questo documentario contiene immagini non adatte e persone "sensibili"


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Articolo a cura di
Maris Davis

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22 giugno 2017

Dalla Nigeria all'Italia, ecco cosa c'è dietro al traffico di donne e bambini

L'Italia è «legata» alla Nigeria sul fronte della prostituzione e delle adozioni illegali. Con i soldi delle attività illegali si finanzia il boom edilizio di Benin City.

Donne nigeriane tenute prigioniere in una "baby factory"
Violentate e messe incinta, costrette a partorire bambini destinati alle adozioni illegali

Nigeria, Abia State. Siamo nella regione del Delta del Niger, gli stessi luoghi dove venne combattuta la sanguinosa guerra del Biafra e oggi terra dove spadroneggiano le multinazionali del petrolio. Lungo le strade che attraversano quello che oggi è lo stato nigeriano a maggior rischio rapimenti (di stranieri) sfrecciano le macchine del NAPTIP, l’agenzia anti-traffico (di esseri umani) nigeriana, in una folle corsa che termina davanti al portone di una vecchia abitazione. Qui, tra le mura grigie, scrostate, di un edificio decadente e invaso dagli insetti, venivano tenute prigioniere oltre trenta donne costrette a partorire bambini destinati a sparire, «nella migliore delle ipotesi per il circuito delle adozioni illegali» spiega Ijeoma Okoronkwo, referente NAPTIP della zona.

Il caso. La baby factory, così viene chiamato l’edificio, è solo uno dei quaranta casi oggi aperti tra Benin City (città dalla quale partono migliaia di ragazze nigeriane verso l'Italia) e Aba (importante centro economico dell'Abia State) per traffico di minori, un crimine inquietante che apre nuovi scenari in un territorio già martoriato dalla continua emorragia di migliaia di donne trafficate ogni anno verso l’Europa.

«Possiamo affermare con certezza che molti di questi bambini vengono trafficati all'estero, ma stiamo investigando anche l’ipotesi che non si tratti solo di adozioni, quanto di bambini destinati agli omicidi rituali. Donne che si vergognano per queste nascite fuori dal matrimonio, famiglie e trafficanti che si arricchiscono tramite passaggi di bambini, il tutto all'interno di una società sfaldata, dove il traffico di esseri umani è diventato il terzo crimine per diffusione e profitti».

Sono almeno 6.000 all'anno le ragazze nigeriane "trafficate"
per un giro d'affari di 228 milioni di dollari

Il principale, quello di donne. L’UNODC, agenzia ONU per la lotta al crimine organizzato, ha rilasciato numeri scioccanti. Oltre 6.000 donne nigeriane vengono portate ogni anno in Europa a scopo di sfruttamento sessuale, per un giro d’affari annuo di oltre 228 milioni di dollari

«L’organizzazione di questo traffico è, a suo modo, perfetta» spiega Igri Edet Mbang, ufficiale dell’unità di intelligence nigeriana. «Hanno quelli che chiamano agenti, i trolleys e le mamam. Gli agenti hanno il compito di reclutare le vittime. Le conoscono. Conoscono le loro famiglie, la loro storia e il linguaggio giusto per ingannarle»

Il traffico. Ad essere ingannate sono tante, ragazze di città, ragazze che abitano nei villaggi circostanti. Gloria Erobaga ha ventiquattro anni e, dopo due anni sulle strade italiane come prostituta, è stata rimpatriata. In questo giorno piovoso, che inzuppa le strade battute dei dintorni di Benin City, Gloria racconta di essere una sopravvissuta, che all'epoca si è fatta convincere «perché mi promettevano un lavoro onesto. Ma la vita sulla strada faceva molta paura. Loro giravano continuamente per controllarci, per raccogliere i soldi e per uccidere le ragazze che non pagavano. So di donne nigeriane che in Italia sono state uccise, tagliate e gettate in sacchi neri, così, come spazzatura» spiega con un filo di voce.

Benin City, baraccopoli
È anche da luoghi così che le ragazze nigeriane vengono "reclutate"

Lo snodo principale dello sfruttamento, quello che costringe psicologicamente le donne a rimanere schiave, è il rapporto con la mamam, la donna che ha il compito di costringerle a lavorare in strada o in appartamento, che chiede i soldi quotidianamente e, allo stesso tempo, provvede alla casa e a risolvere eventuali controversie. Le mamam sono ovunque a Benin City e contattarle non è difficile.

Filmata con telecamera nascosta, una mamam spiega che nulla è possibile senza di lei. «Ho il contatto giusto in Italia. Questo è il business vero, dove si guadagna, il resto è tutto una copertura. Però voglio solo ragazzine inesperte e, soprattutto, è necessario esaminare la spiritualità della ragazza, prima di procedere».

Parole che introducono l’elemento che crea e sancisce la schiavitù fisica e psicologica, il woodoo, chiamato juju, rito tradizionale utilizzato per creare un legame tra la vittima e i trafficanti. Le donne, sottoposte a un giuramento durante il quale donano peli pubici, sangue e indumenti intimi, vengono portate da santoni della religione tradizionale o dai nuovi pastori delle chiese pentecostali che hanno invaso le strade di Benin City, disposti a celebrare il rito previo pagamento e quindi a rendersi complici di un circuito criminale di cui ormai lo juju è considerato in Nigeria ed Europa parte integrante. E come se non bastasse, «lo juju possiamo anche recapitarlo via posta, tramite DHL. Lo spediamo dalla Nigeria all'Italia,» afferma la madam filmata in segreto.

Legame Speciale. Un legame «speciale» con l’Italia sancito anche da un recentissimo report della Banca Mondiale sul ruolo di Western Union e delle rimesse dei nigeriani presenti nel bel paese. «Western Union possiede la fetta di mercato maggiore in Nigeria (70-80%) e un contratto in esclusiva con First Bank of Nigeria per il trasferimento di soldi, ma soprattutto è il maggiore veicolo di trasferimento delle rimesse, che provengono principalmente dall'Italia e indirizzate a Benin City, dove i soldi vengono investiti nel crescente business edilizio».

Sono soldi, molti soldi quelli che entrano in Nigeria ed escono tramite la tratta. «Ma noi nutriamo qualche speranza,» afferma ancora Okoronkwo. «Oggi abbiamo delle donne, che hanno venduto i propri bambini o le proprie figlie, che sono venute a denunciare, che parlano. Abbiamo anche messo mano alla legge sulle adozioni e cominciato a mappare le zone a rischio. C’è speranza, almeno per noi».
(Fonte dell'Articolo: reportage Al Jazeera)





Articolo a cura di
Maris Davis

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21 giugno 2017

Nascere "bianchi" in Africa, una vita di terrore

Concentrati per la maggior parte in Africa Sub-Sahariana, gli albini subiscono discriminazione e sono spesso vittime di uccisioni rituali a scopi di lucro. L’impegno dell'Onu per la salvaguardia dei loro diritti.


Dal 2014 le Nazioni Unite hanno proclamato il 13 giugno giornata mondiale di consapevolezza sull'albinismo.
Alcuni fatti:
Tanzania, gennaio 2015, Yohana, un anno e mezzo, la vittima più giovane.
Mali, 23 maggio 2016, quattro persone uccise.

Sono solo due dati? No, sono persone, esseri umani indifesi perché nati con una malattia genetica: l’albinismo appunto. Raro nel mondo occidentale, ma estremamente diffuso nel continente africano. «È molto difficile vivere in Africa per un albino. Tutti attorno a te sono di pelle nera e il colore della tua pelle si distingue per forza in modo netto». Così, spiega Ikponwosa Ero, 34 anni, albina di origini nigeriane, da vent'anni cittadina canadese, nominata nel 2015 dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite esperta indipendente sul tema dell’albinismo.

Può sembrare paradossale che nei paesi dell’Africa sub-sahariana si concentri la maggior parte delle persone con questa rara patologia, eppure i dati epidemiologici ci dicono questo: l’albinismo ha una prevalenza di uno ogni 20.000 nati in Europa e Nord America e di uno ogni 5.000 nei paesi a sud del Sahara, con la Tanzania che detiene il maggior numero di soggetti, uno su 2.000 nati.

Fonte di guadagno
In Africa gli albini sono vittime di rapimenti finalizzati all'uccisione. I corpi vengono prima sotterrati e poi riesumati per ottenere polveri “miracolose” dai resti ossei. I bambini sono strappati in fasce dalle loro madri e mutilati perché si pensa che braccia e gambe assicurino fortuna e denaro. Uno scenario apocalittico, i cui responsabili principali sono soggetti avidi e ignoranti.

Organizzazioni come Under the same Sun, oppure Standing Voice, impegnate soprattutto nella cura e nel superamento del deficit visivo di cui sono affette le persone albine, forniscono dati unanimi, il corpo di un albino ha un valore materiale di decine di migliaia di euro. Spesso sono gli stessi parenti, soprattutto padri e zii, che considerano la nascita di un albino una fonte di denaro.

Discriminazione sociale
Ikponwosa Ero
Ikponwosa Ero racconta. «Il mio ruolo è quello di monitorare la situazione rispetto alla salvaguardia dei diritti degli albini nei diversi Stati e riportare alle Nazioni Unite le violazioni di cui sono vittime. Oltre a questo, ho il compito di interagire con i governi locali e di rappresentare e supportare i diritti degli albini attraverso una missione di advocacy. Non è facile avere dati ufficiali dai diversi stati africani sugli attacchi ai danni di persone albine. Ci sono tuttavia molte organizzazioni non governative che diffondono i propri dati, affidabili, su tali attacchi»

Ma gli albini hanno una vita difficile a prescindere dalle violenze. «Per il solo fatto di nascere con una pelle così chiara sei additato come diverso. L’albino vive una situazione di forte discriminazione sociale a causa dell’ignoranza generale su questa condizione. Vedono solo il colore della tua pelle, ma non sanno che la tua vista è fortemente compromessa e che, quindi, non avrai la possibilità di frequentare la scuola perché non sei in grado di leggere ciò che sta scritto sulla lavagna»

Ero ricorda inoltre il problema del cancro alla pelle: non esistono protezioni solari e, a causa del melanoma, gli albini africani hanno una sopravvivenza media di soli 40 anni. «Inoltre gli insulti verbali di cui sono vittime i bambini albini, a partire dai propri familiari per proseguire quando escono e camminano per la strada, è uno dei fatti più dolorosi. Ma qualcosa sta cambiando, anche se molto lentamente»

Una vita di terrore
Le persone affette da albinismo continuano ed essere discriminate, perseguitate e uccise in Africa sub-sahariana. Un fenomeno in espansione nel settore orientale, dove perdurano e si diffondono credenze secondo le quali parti del corpo di un albino siano potenti ed indispensabili ingredienti nei rituali di magia nera per ottenere denaro, potere e successo.

Cacciati come animali perché alcune parti del loro corpo vengono vendute e usate per compiere riti magici che si ritiene portino fortuna, ricchezza e salute. Martirizzati ed emarginati dalle loro stesse comunità culturalmente arretrate che in loro vedono solo un’anomalia da eliminare o “oggetti preziosi” da sfruttare. Siamo nel 2017, eppure è ancora questo il destino per molti albini. Una vita di terrore, da “ultimo fra gli ultimi” che non può mai dirsi davvero al sicuro.

In Malawi la carneficina continua
A confermarlo ci sono i dati pubblicati da Amnesty International sulla situazione in Malawi, uno dei paesi in cui il fenomeno è maggiormente diffuso. Alcune misure di protezione in campo legislativo prese dal governo di Lilongwe, come le modifiche al codice penale e una nuova legislazione sull'anatomia, sembravano aver avuto un qualche risultato perché nel secondo semestre dell’anno non erano state registrate nuove uccisioni. Invece, da gennaio due persone con albinismo (un ragazzo di 19 anni e una donna di 31) sono state uccise e molte altre avrebbero subito la stessa sorte, se i tentativi di rapimento non fossero stati sventati. Così, il numero delle persone con albinismo uccise nel paese africano dal 2014 è salito a 20 e nello stesso periodo le denunce di tentato rapimento e di attacchi sono state ben 117.

Un caso sarebbe avvenuto anche nel vicino Mozambico, dove il 28 maggio scorso un bambino malawiano, Mayeso Isaac, è stato rapito e poi ucciso da una banda armata mentre si stava recando a visitare alcuni parenti.

Annie Alfred è una bambina come molte altre, vive in Malawi con la sua famiglia e ha molti amici. Ha 10 anni e da grande vuole fare l’infermiera. Ma probabilmente non potrà mai farlo perché vi sono persone nel suo paese che credono che il suo corpo abbia dei poteri magici. Pensano che non sia un essere umano.

La chiamano “fantasma. Vogliono rubarle i capelli o, peggio ancora, le ossa. Annie è affetta da albinismo, un’anomalia congenita che impedisce al suo corpo di produrre sufficiente melanina, la sostanza che permetta ai capelli di assumere il loro colore e alla pelle di proteggersi dal sole.

In Malawi vivono tra le 7.000 e le 10.000 persone albine. Tutte loro subiscono la stessa sorte di Annie: rischiano tutte di essere perseguitate e uccise da chi crede di potersi arricchire grazie alla vendita di parti del loro corpo.

Le persone come Annie non sono mai al sicuro, sono visti come gli oggetti preziosi che possono essere rubati e venduti. Questo non solo perché alcuni criminali tentano di rapirle, ma anche perché i loro stessi famigliari sono vittime del pregiudizio e vogliono arricchirsi sfruttando il loro corpo.

Chiedi al Malawi di proteggere Annie e tutte le persone affette da albinismo. Fermiamo questi orrendi crimini. SUBITO

Una malattia genetica
L’albinismo, dal latino albus (bianco), è un disturbo genetico ereditario che si manifesta con l’assenza o la carenza di melanina nella pelle, nei capelli e negli occhi, perché il corpo non riesce a produrla. Le persone albine sono immediatamente riconoscibili per il colore candido della pelle e, soprattutto, dei capelli. La persona affetta da albinismo, inoltre, molto spesso ha anche problemi di deficit visivo ed è soggetta un alto rischio di cancro alla pelle, dovuto alla mancanza di protezione contro le forti radiazioni solari.

A livello mondiale, la malattia si stima riguardi una persona ogni 17.000 ma, anche se può sembrare un paradosso, la patologia è prevalente nell'Africa Sub-Sahariana (Malawi, Tanzania, Burundi, Zimbabwe, Kenya e Mozambico in testa), in particolare a causa delle unioni tra consanguinei che restano ancora molto diffuse. L’incidenza è pari a uno ogni 5.000 individui nei paesi a sud del Sahara, con la Tanzania che detiene il maggior numero di soggetti: una nascita ogni 2.000.

Non è facile avere dati ufficiali dal continente africano sul numero esatto di attacchi ai danni di persone albine per rituali magici, perché la maggior parte non vengono nemmeno documentati, ma si stima siano centinaia. La loro vita è già difficile all'interno delle stesse comunità a cui appartengono che, non conoscendo la malattia, interpretano la nascita di un soggetto bianco come un evento magico. I bambini sono così oggetto di stigmatizzazione perché troppo diversi e finiscono col vivere ai margini, senza diritti né protezione.


Piaga causata da un mercato lucroso
Le pratiche disumane subite dagli albini africani si susseguono soprattutto perché la loro morte vale molto denaro e attorno ad essa si è formato un mercato illegale.

Alcune parti del corpo degli albini sono molto richieste dagli sciamani per compiere i loro riti magici e vengono vendute a prezzi altissimi sul mercato nero. Secondo recenti inchieste, in Kenya il prezzo per una persona affetta da albinismo è arrivato a raggiungere i 180mila euro, mentre le orecchie, la lingua, il naso, i genitali e gli arti possono arrivare anche a costare 75mila euro e la pelle vale invece tra i 1.500 e i 7.000.

Spesso sono i loro stessi familiari che, vittime dell’ignorante pregiudizio, vogliono arricchirsi sfruttando il corpo dei parenti. E in casi ancor più estremi ci sono bambine che vengono violentate, poiché si crede che dormire con un albino possa guarire gli uomini malati di Aids.

Oltre al Malawi, dove il governo nel 2015 ha addirittura autorizzato la polizia ad usare armi da fuoco contro chi viene colto in flagrante rapimento di un albino (senza però ottenere grandi successi come prevedibile), si aggiunge quello della Tanzania che detiene il record di queste “uccisioni rituali. Ufficialmente si tratta di almeno 80 morti dal 2000 al 2015, ma il numero potrebbe essere più alto.

Nel gennaio del 2015, il governo di Dar es Salaam (Tanzania) ha emesso il divieto di praticare la stregoneria e messo al bando gli sciamani. Eppure, nonostante duecento arresti tra stregoni e criminali vari, il divieto è servito a poco. Nel periodo che ha preceduto le elezioni generali dell’ottobre dello stesso anno, infatti, è stato registrato un notevole incremento degli attacchi per scopi rituali, a cui sembra si siano sottoposti numerosi politici per rafforzare le proprie chance elettorali.

Un altro aspetto oscuro del problema è proprio questo, chi dovrebbe combattere il fenomeno (funzionari statali o politici) è spesso il mandante dei rapimenti o il fruitore finale dei rituali magici

Servono leggi severe ma soprattutto educazione
In ogni caso è chiaro che le istituzioni di paesi come il Malawi non riescono ad attuare misure efficienti per prevenire gli attacchi e perseguire i colpevoli che restano impuniti, come denunciato in un recente approfondimento dell’emittente Al Jazeera, in cui si spiega il fenomeno riportando numerose testimonianze di vittime.

Anche Deprose Muchena, direttore regionale di Amnesty per l’Africa del sud, ritiene siano le “autorità a dover prendere delle misure decisive per porre fine una volta per tutte a questo fenomeno”. Ma non si tratta solo di leggi, divieti o pene più severe. La “questione albina” va risolta con un cambiamento culturale che può avvenire solo eliminando la superstizione e istruendo con evidenze scientifiche l’opinione pubblica sin dall'infanzia, nelle scuole e con l’aiuto delle organizzazioni che tutelano queste persone. La difesa e i diritti degli albini andrebbero promossi partendo dalla base sociale e in questo gli stati africani maggiormente interessati stanno facendo ancora troppo poco.





Articolo a cura di
Maris Davis

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13 giugno 2017

Libertà di Stampa. Africa a geometria variabile

World Press Freedom Index 2017
I poteri forti minacciano sempre più la libertà della stampa, che ha subìto un generico deterioramento a livello globale negli ultimi 12 mesi.


La libertà dei media nelle 180 nazioni esaminate nel rapporto annuale di Reporter Sans Frontières non è mai stata così minacciata e “l'indicatore globale” di censura non è mai stato così alto. Ma nel complesso, rispetto al passato, i paesi africani hanno invece migliorato le loro posizioni.

Siamo in un mondo dove gli attacchi ai media e all'informazione sono ormai cosa comune e i poteri forti sono in crescita. È l’era della post-verità, della propaganda e della repressione delle libertà, specie nelle democrazie

Inizia così la descrizione dei risultati del rapporto annuale sulla libertà di stampa nel mondo pubblicato da Reporters Sans Frontières (RSF) nel mese di maggio. I ricercatori lanciano l’allarme affermando che la libertà dei media nelle 180 nazioni esaminate non è mai stata così minacciata e “l'indicatore globale” di censura non è mai stato così alto. Quasi due terzi dei paesi ha fatto registrare un deterioramento della situazione nell'ultimo anno, mentre il numero di quelli in cui la libertà dei media si può definire buona è sceso del 2,3%.

Mappa della Libertà di Stampa nel Mondo 2017

Complessivamente l’Africa compie passi in avanti ma la sua situazione è ancora contraddistinta da una forte disparità tra paesi molto liberi e altri dove la libertà d’informazione è compromessa o del tutto assente

Africa dai mille volti. Nonostante l’allarme lanciato a livello mondiale infatti, nel complesso gli stati africani hanno migliorato nettamente le loro posizioni rispetto agli anni precedenti. In tema di libertà di stampa il continente nella classifica delle macro-regioni ormai segue solo le Americhe (a distanza di poco più di 5 punti) e l’Europa.

Analizzando l’indice i miglioramenti sono tangibili. In cima alla classifica dei dieci paesi africani più virtuosi troviamo la Namibia che occupa il 24° posto a livello mondiale, seguita da Ghana, Capo Verde, Sudafrica, Burkina Faso, Botswana, Mauritania, Mauritius, Madagascar e Senegal.

RSF ha elogiato il Gambia in cui la libertà d’informazione torna a respirare dopo la caduta del dittatore Yahya Jammeh lo scorso 21 gennaio e scala la classifica di due posizioni piazzandosi al 143° posto. Nel Nord Africa, accorpato al Medio Oriente come macro-regione e considerata ancora come la più pericolosa per i giornalisti, spicca la Tunisia che si piazza al primo posto nel Maghreb essendosi classificata al 97° posto, pur perdendo una posizione rispetto allo scorso anno.

I fanalini di coda. In fondo alla graduatoria, per la prima volta dal 2007, non c’è più l’Eritrea che ora è penultima. Magra consolazione visto che a fare peggio ora c'è la Corea del Nord di Kim Jong-un, decritta come un paese che “continua a far vivere la sua popolazione nell'ignoranza e nel terrore”. Situazione non dissimile da ciò che accade ad Asmara, dove tutti i media sono controllati dal regime.

Altre situazioni critiche sono state individuate nella Repubblica Democratica del Congo (perse due posizioni, ora al 154° posto) e Burundi (perse quattro posizioni, ora 160°) dove i media hanno subìto molti attacchi da parte del potere a causa delle crisi politiche che stanno vivendo. Molto male anche il Sudan (174° e penultimo nella classifica africana) e Gibuti, dove ormai non sarebbero più presenti media indipendenti (posizione 172 su 180).

Bavaglio in Tanzania. Una brutta sorpresa in negativo, purtroppo, è arrivata dalla Tanzania, considerata fino a poco tempo fa un paese virtuoso. Il governo del presidente John Magufuli, eletto nel ottobre del 2015 e soprannominato “bulldozer” per la sua lotta contro la corruzione, ultimamente ha iniziato ad usare il pugno duro soprattutto contro l’informazione e minacciato più volte la stampa che critica il suo programma politico, arrestando giornalisti e bloggers. Una serie di leggi come il "Cyber Security Act", il "Media Services Act" e lo "Statistics Act" mettono inoltre a rischio la libertà di stampa nel paese, specie sul web. La nazione dell’Africa orientale ha perso 12 posizioni in classifica e ora è all’83° posto. Peggio ha fatto solo il Nicaragua di Daniel Ortega (-17 posizioni)

Occidente non più cristallino. In occidente invece, l'ossessione per la sorveglianza e le violazioni dei diritti, hanno contribuito a un continuo declino anche in paesi precedentemente ritenuti virtuosi. Tra questi sono inclusi anche gli Stati Uniti e il Regno Unito, entrambi scesi di due posizioni. Secondo RSF, l'ascesa di Trump e la campagna per la Brexit sono responsabili di una “bastonata” ai media, e di una campagna tossica contro i media stessi che ha portato “all'era della post-verità, della disinformazione e delle fake news”. Molto negative le situazioni in Ungheria, Turchia, Polonia e Russia.

A livello globale nell'indice si evidenzia la libertà d'informazione in paesi come Norvegia (prima), Svezia (seconda) e Finlandia (quest’anno terza dopo sei anni di dominio in classifica).

L’Italia è in risalita: dal 77° posto del 2016 all'attuale 52°, ma restano criticità legate a pressioni e intimidazioni da parte delle organizzazioni criminali, sono ancora tanti i giornalisti italiani costretti a girare con la scorta a causa delle minacce di morte ricevute a causa delle loro inchieste sulla criminalità organizzata.

L'indice realizzato da Reporters Sans Frontières si basa su alcuni criteri che sono: il pluralismo dei media, l'indipendenza, la qualità del quadro giuridico e la sicurezza dei giornalisti in 180 paesi del mondo. È stilato mediante la compilazione di un questionario in 20 lingue, inviato a esperti di tutto il mondo. Nell'indice minore è il punteggio, maggiore è la libertà di stampa nel paese.
World Press Freedom Index 2017



Articolo a cura di
Maris Davis

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