09 aprile 2019

Rwanda, 25 anni fa il genocidio che il mondo non ha voluto vedere

I cento giorni di follia del genocidio del Rwanda. Tra il 7 aprile e il 4 luglio del 1994 circa un milione di ruandesi furono massacrati a colpi di machete, bastoni chiodati e asce. Cosa scatenò il massacro, i messaggi, il ruolo controverso della Francia e l'assenza di giustizia dopo 25 anni.


Alle 9.30 locali di ieri sera si sono sentite due forti esplosioni nell'aereo che stava atterrando a Kigali con i presidenti di Rwanda e Burundi a bordo. Il velivolo è precipitato in fiamme”, così gracchiò il transistor Sony broadband. La Cnn già esisteva ma i giornalisti continuavano a restare affezionati ai notiziari radio della Bbc World Service. Si potevano ascoltare ovunque: sulle montagne dell'Afghanistan o sotto un bombardamento a Beirut. Al transistor bastavano quattro pile.

Da ieri sera colpi di arma da fuoco ed esplosioni si sentono ininterrottamente per le strade”, continuava la corrispondente della Bbc da Kigali. Era il 6 aprile 1994, ormai 25 anni fa. I due presidenti uccisi erano dell'etnia Hutu, in Rwanda la grande maggioranza rispetto ai Tutsi. Stava iniziando il più orrendo massacro etnico della storia contemporanea, dopo l'Olocausto. Ma la stampa internazionale era a Johannesburg a seguire un miracolo africano: il 26 ci sarebbero state le prime elezioni democratiche e multietniche, stava nascendo la “Rainbow Nation” di Nelson Mandela.

In un certo senso i giornalisti laggiù, a Johannesburg, si rifiutarono di credere che in Africa potesse accadere qualcosa di orribilmente tribale, mentre Madiba smontava l’apartheid senza bagni di sangue. Anche la diplomazia internazionale si trovò spiazzata. Libero dalle pressioni mediatiche che avrebbero svegliato le coscienze, e grazie al torpore dell'Onu e dei governi del mondo, il Rwanda ebbe il tempo necessario per compiere il suo genocidio. Forse sapendo di essere prima o poi interrotto, il Paese sprofondò nell'inferno con grande celerità: 800mila morti in soli cento giorni. Non furono usati l’aviazione, l'artiglieria, gas né armi chimiche. Bastarono fucili, bombe a mano e soprattutto bastoni e machete.

I carnefici erano gli Hutu e le vittime i Tutsi
I responsabili morali le vecchie potenze coloniali belga e francese. Avevano messo al potere la minoranza Tutsi, non avevano fatto nulla per l’integrazione etnica e sociale con gli Hutu, e anche con la fine (teorica) del potere coloniale, avevano continuato a mestare sulle differenze tribali. In quell'aprile di 25 anni fa la manodopera del massacro furono i ragazzi dell'Interahamwe, la milizia giovanile dell'Mrdn, il partito Hutu. Ma morirono anche migliaia di hutu, uccisi dalla loro stessa etnia perché ostili al genocidio, e dall'Rpf, il partito Tutsi che si era riorganizzato in Uganda che da lì era partito alla riconquista del Rwanda.

Cento giorni dopo l'aereo precipitato, Paul Kagame, il capo dell'Rpf aveva preso Kigali. Al potere anche oggi.

Il massacro finì ma non del tutto
Ci furono le vendette. Furono organizzati i Gacaca, le corti comunitarie simili al modello sudafricano della Commissione per la verità e la giustizia. Ma dal punto di vista della riconciliazione nazionale non ebbero lo stesso successo. Migliaia di Hutu morirono in carcere in attesa del processo. Altri due milioni fuggirono nel Congo che allora si allora chiamava ancora Zaire.

Al genocidio seguì una gigantesca crisi umanitaria. I Tutsi inseguirono il nemico, destabilizzando il Congo e l’intera regione.

Durante i cento giorni, a Kigali morì un abitante su dieci
Le acque del lago Vittoria rimasero inquinate per anni, a causa dei morti che vi galleggiavano. Se oggi andate in Rwanda, ritroverete il languido Paese rurale delle “mille colline”. Paul Kagame ne ha però cambiato il profilo economico, trasformandolo nel Paese forse più tecnologico d'Africa, sicuramente della regione dei Grandi Laghi. È vietato parlare di etnie e il genocidio è costantemente ricordato perché non se ne ripeta un altro. Ma Kagame è anche un autocrate e a volte qualche oppositore muore. Ma l’etnia non c'entra.

La Storia

È considerato uno degli eventi più sanguinosi della fine del secolo scorso, uno sterminio scatenato dall’odio interetnico tra Hutu e Tutsi, che la comunità internazionale non è stata in grado di fermare, o meglio quando ha agito era già troppo tardi.

La scintilla dell'attentato all'aereo presidenziale
La sera del 6 aprile 1994, alle 20.30, gli abitanti di Kigali sono incollati al televisore per una partita di calcio, scossi da un boato tremendo. L’aereo con a bordo il presidente ruandese Juvela Habyarimana e l’omologo burundese Cyprien Ntariamira, esplode in volo, a pochi minuti dall'atterraggio nella capitale del Ruanda, colpito da un missile terra-aria. I due leader, entrambi Hutu, ritornavano dalla vicina Tanzania dove avevano appena firmato un trattato di pace con i ribelli Tutsi del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr).

L’attentato è il segnale
Da lì a poche ore nel piccolo paese delle "mille colline" si scatena l’inferno, costato la vita a quasi un milione di Tutsi e migliaia di Hutu moderati, ma le stime variano tra 500 mila e 1,2 milioni di vittime. Se l’uccisione del presidente Habyarimana è stata la scintilla che ha fatto scattare la vendetta degli Hutu estremisti, in realtà l’odio inter-etnico covava da decenni, ancora prima dell’indipendenza dal Belgio, avvenuta nel 1962. Una storia già caratterizzata da ciclici scontri sanguinosi tra le due etnie. Elementi d’inchiesta hanno poi rivelato che il dramma era stato pianificato dalle autorità che avevano stilato elenchi di persone da uccidere e ordinato alla Cina un carico di 500 mila machete.

L'incitamento all'odio in diretta radio
La famigerata ‘Radio Télévision Libre des Mille Collines’, nota per fare propaganda razzista contro i tutsi, ha espressamente dato il via ai massacri, invitando gli ascoltatori a “schiacciare gli scarafaggi”, nome sprezzante dato ai tutsi. È così che comincia un’autentica caccia all'uomo, attuata dalle milizie Hutu, note come Interahamwe, l’ala giovanile del partito al potere, il Movimento Repubblicano Nazionale per la Democrazia e lo Sviluppo (Mrnd). Le violenze colpiscono anche gli Hutu moderati che provarono ad opporsi alla strage.

Il tutto sotto gli occhi indifferenti della comunità internazionale. Nessuno o quasi chiede un intervento, ad eccezione del generale canadese Roméo Dallaire, a capo della Missione Onu in Rwanda (Unamir), che sollecita invano un raddoppio dei circa 2700 caschi blu dispiegati nel Paese per impedire la tragedia. Come risposta le Nazioni Unite ritirano quasi tutto il loro contingente, mantenendo solo 300 uomini.

L'assenza Stati Uniti e le responsabilità della Francia
Totalmente assenti dal scenario gli Stati Uniti, che si erano appena ritirati da una operazione fallimentare in Somalia e non avevano alcuna intenzione di impantanarsi in un altro conflitto africano. Il Belgio, ex-potenza coloniale del Rwanda, si è invece limitato ad evacuare i propri cittadini. Parigi ha avuto un ruolo controverso nel genocidio, ancora oggi oggetto di inchieste, accusata di non averlo fermato ma anche di averlo alimentato con l’invio di armi alle milizie hutu.

Oltre al fatto che ci sono prove in merito all'addestramento dell’esercito ruandese da soldati francesi, autorizzato dal governo del presidente François Mitterrand. Per giunta il rapporto Muse, pubblicato nel 2017, ha rivelato che funzionari francesi hanno fornito protezione presso l’ambasciata a Kigali a responsabili del governo ad interim, al potere il Rwanda durante le uccisioni di massa.

Sotto mandato delle Nazioni Unite la Francia ha condotto l’operazione "Turquoise", a partire del 23 giugno 1994 fino al 21 agosto, per cercare di porre un freno alle violenze già in atto. All'operazione hanno partecipato 2500 soldati francesi e un contingente di truppe africane, troppo pochi per fermare i massacri. Nel sud-ovest del Paese viene creata una zona rifugio sicura per le migliaia di sfollati, la ‘zona Turquoise’, ma non basta.

Sfavorevole anche il momento storico: in quei mesi i media si focalizzavano sul’intervento Usa in Somalia, la fine dell’apartheid in Sudafrica e la guerra nei Balcani.

La mattanza si è conclusa a metà luglio 1994, quando l’esercito comandato dall'attuale presidente del Rwanda, il Tutsi Paul Kagame, penetrato dal vicino Uganda, conquista Kigali facendo cadere il governo ad interim. La vittoria dell’Fpr sulle forze governative porta all'esodo di circa di 2 milioni di Hutu nei paesi limitrofi mentre in patria rientrano i Tutsi esiliati anni prima.

Giustizia incompleta, ancora alla ricerca di verità
Il Tribunale penale internazionale per il Rwanda, Ictr, (International Criminal Tribunal for Rwanda) istituito nel novembre 1994, con sede ad Arusha, ha processato i ‘pesci grossi’, ma soltanto una settantina in 20 anni di attività. In patria i ‘Gacaca’, le corte popolari hanno invece processato migliaia di assassini, in parte già tornati liberi.

A 25 anni di distanza non è ancora emersa tutta la verità, a cominciare dall'attentato all'aereo presidenziale, la cui responsabilità potrebbe essere dell’ala più estremista degli hutu o dei tutsi dell’Fpr di Kagame. I crimini commessi da questi ultimi sono ancora un tabù, pertanto la giustizia locale è stata spesso unilaterale e parziale. Inoltre non si ha alcun bilancio ufficiale sulle vittime Hutu della successiva repressione attuata dall’Fpr, in particolare nel 1996-97 nel confinante Congo.


Solo in occasione del decennale del genocidio è arrivato il mea culpa dell’Onu
La comunità internazionale ha abbandonato il Rwanda alla sua sorte e questo ci lascerà per sempre i più amari rimpianti e la più profonda tristezza. Se avesse reagito velocemente e con determinazione, avrebbe potuto impedire la maggior parte dei massacri. Ma la volontà politica era assente. Anche le truppe lo erano”. Così ha dichiarato il 7 aprile 2004 l’allora segretario generale dell'ONU Kofi Annan.

Infine permangono zone d’ombra sulle reali responsabilità delle truppe francesi dispiegate in Rwanda, che saranno al centro delle ricerche della neo commissione di storici ed esperti istituita dal presidente Emmanuel Macron, come promesso al suo omologo Kagame.

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Articolo di
Maris Davis


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