31 maggio 2018

Agbogbloshie, Ghana. Ecco dove finiscono i rifiuti elettronici del ricco occidente

Ghana, la discarica di Agbogbloshie ad Accra. La Sodoma e Gomorra dell'Hi-Tec. Falò di rottami e nuvole di fumi tossici stanno avvelenando irreparabilmente l'ambiente e le persone.


Ad averla creata il traffico illegale che ogni anno riversa in Africa la spazzatura elettronica dell'Occidente.

A pochi km da Accra. Una città nella città, dove vivono decine di migliaia di persone. La più estesa discarica africana di rifiuti elettronici.

Molti, da governi ad associazioni, da agenzie a ong, promettono di smantellarla. Ma sono progetti che durano poche settimane, addirittura pochi giorni. Poi la novità scompare come scompaiono i “benefattori” e i “curiosi”, e tutto torna come prima. Peggio di prima, perché questa è una gallina dalle uova d’oro, dove a lucrare sono in molti. Tranne i disperati.

Agbogbloshie rappresenta un grande buco nero. Un luogo dove tutto è possibile e illegalità e rischio sono la norma

Qui approdano ogni anno migliaia e migliaia di tonnellate di e-waste (impossibile fornire una cifra precisa). Computer, stampanti, televisori, fornetti elettronici, frigoriferi, cellulari. Roba ormai inutile secondo chi la butta via. Condemned things, la definiscono invece tutti quelli che su quei rifiuti fa business.

Arrivano dall'Europa, compresa l’Italia, dagli Stati Uniti, da paesi cosiddetti avanzati che, però, non riescono a smaltire questi oggetti di consumo in modo adeguato e seguendo le regolari procedure.

Sono oggetti che rientrano nella categoria di “rifiuti pericolosi” e che quindi, secondo la Convenzione di Basilea (il principale trattato internazionale per la regolamentazione dei movimenti di rifiuti pericolosi fra le nazioni), sarebbe vietato spedire nei paesi in via di sviluppo. Ma quella stessa convenzione ne permette l’esportazione per la riparazione e il riuso. E così avviene.

Ogni settimana decine di container contenenti questa merce arrivano nel porto di Tema, grande centro a circa 30 chilometri dalla capitale del Ghana. False etichette per indicare che si tratta di beni di “seconda mano”, e una catena di corruzione sistematica rende possibile lo scarico anche di quegli oggetti che sono, in realtà, in massima parte inutilizzabili.

Cosa hanno in comune un televisore vecchio modello proveniente dall’Olanda, il monitor di un PC con una targhetta di riconoscimento scritta in italiano e un cellulare acquistato negli States? Hanno in comune il fatto di essere ormai considerati e-waste (rifiuti elettronici) e di aver affrontato un lungo viaggio per finire la propria vita ad Agbogbloshie, in Ghana, dove si trova la più grande discarica tech dell’Africa. Un’inquietante realtà che già diverse volte è finita sotto i riflettori dei media.

Il Paese che recupera e ricicla
Il Ghana è un Paese dell’Africa occidentale molto povero, ma in forte crescita economica. Acquistare qui un qualsiasi tipo di apparecchio elettronico appena uscito dalla fabbrica è praticamente impossibile. Da un lato sarebbe materialmente difficile trovarlo sul mercato, dall'altro il suo prezzo di vendita rischierebbe di essere molto superiore rispetto a quanto si paga normalmente.

Motivi che hanno spinto il Ghana a specializzarsi nel recupero e riciclo dei rifiuti elettronici e hanno trasformato il Paese in una delle mete preferite dell’e-waste mondiale. Le strade di Accra, la capitale, pullulano di negozi di elettrodomestici ed elettronica di seconda mano.

All'ingresso pile di frigoriferi e televisori in bella mostra, mentre nel retrobottega giovani ragazzi armeggiano con pinze e fili di rame vicino a un transistor.

Come sistema di riparazione è forse un po’ primitivo, ma sicuramente efficace. Soprattutto se si prendono in considerazione le parole di Martin Oteng-Ababio, professore dell’Università del Ghana. “Molti degli studenti possiedono un computer di seconda mano perché il mercato dell’usato, per buona parte della popolazione, è l’unica via d’accesso alla tecnologia


Ogni mese arrivano al porto di Accra 500 container di rifiuti elettronici provenienti dai Paesi più sviluppati del mondo

Tecnologia che, sotto forma di e-waste, proviene dalle aree più sviluppate del mondo e che nel 2018, è stato calcolato, toccherà le quasi 50 milioni di tonnellate prodotte all’anno. In una speciale classifica dei Paesi più consumisti la parte del leone ovviamente la fanno gli Stati Uniti con 7.072 tonnellate annue (circa 22,12 kg per ogni americano) di rifiuti elettronici. Ma anche l’Europa dice la sua con le 1.511 tonnellate del Regno Unito e le 1.077 dell’Italia. Per non parlare poi della Norvegia che di tonnellate ne produce solo 146, ma ha uno dei valori pro capite più elevati (28,4 kg).

Il mercato internazionale dell’e-waste
Adam Minter, autore di Junk Yard Planet, parla di “circa 500 container al mese in arrivo al porto di Accra”. Un circolo vizioso che porta nei Paesi in via di sviluppo gli avanzi di un Occidente hi-tech: apparecchi elettronici magari obsoleti ma ancora funzionanti, o che comunque un valore ce l’hanno per via delle componenti metalliche che contengono. Imballati e spediti per mare, una volta arrivati a destinazione c’è ad attenderli un capillare giro di intermediari, riparatori e rivenditori dell’usato. In Europa, Asia, o America, i fornitori non aspettano altro che una telefonata: si tratta un po’ sul prezzo e si organizza subito un’altra spedizione.

Il lato negativo di questa compravendita dipende dalla qualità della merce in arrivo. Perché, in mezzo a molti apparecchi funzionanti, c’è anche una notevole quantità di rottami inutilizzabili. Un flusso di rifiuti tossici vietato dalla convenzione di Basilea che i ricercatori dell’Università del Ghana spiegano così: “Il trattamento dell’e-waste nel rispetto delle leggi ne eleva notevolmente il costo e allora i rifiuti tendono a migrare verso i Paesi in via di sviluppo dove le leggi non ci sono, o comunque non vengono rispettate

Secondo alcuni studi, la durata media di un’apparecchiatura elettronica usata è di due o tre anni. E ad Accra, quando qualcosa non può essere riparato, finisce ad Agbogbloshie. Questo il nome del sobborgo ad ovest della capitale dove col passare del tempo si è creata un enorme discarica del tech che sta inquinando in modo irreparabile il sottosuolo e le acque del fiume Odaw.


Sodoma e Gomorra, ovvero la grande discarica
Agbogbloshie non è una semplice discarica. È un agglomerato umano cresciuto, col passare del tempo e con l’aumento dell’e-waste, nei sobborghi ovest della capitale. Un luogo dove, secondo le stime, abitano circa 80 mila persone che si guadagnano da vivere tra falò di plastica e nuvole di fumi tossici, in quella che qualcuno ha ribattezzato poeticamente “Sodoma e Gomorra

La verità è che di poetico ad Agbogbloshie non c’è nulla. A dominare è la povertà e i rifiuti elettronici, che qui rappresentano un’opportunità di sopravvivenza concreta. Uomini, donne e, soprattutto, ragazzini camminano tra i rottami in cerca di parti e componenti da smantellare e rivendere. La merce più preziosa e ricercata sono i fili di rame che gli e-waste boys recuperano dai fuochi di rifiuti spenti.

Ma qui materie prime e componenti di qualche valore sono solo di passaggio. Dal Ghana, infatti, vengono imbarcate nuovamente e spedite a industrie e raffinerie dell’Occidente, andando ad alimentare il mercato dell’e-waste illegale che fa i propri affari sulla pelle dei Paesi più poveri.

Le conseguenze
La pratica comune dei falò di rottami elettronici diffonde nell’aria componenti pericolose per la salute (metalli pesanti come cadmio, mercurio, bromo, ecc..) che il vento spinge poi a km di distanza. A pagarne le conseguenze sono gli stessi abitanti. Secondo le analisi compiute su diversi campioni di sangue (International growth centre), i livelli di piombo risultano estremamente alti.

Ma lo stesso discorso va fatto per l’ambiente. “Quello che una volta era un paesaggio verde e fertile”, ricorda Mike Anane, il giornalista che ha svelato al mondo gli orrori di Agbogbloshie, “è oggi un cimitero di plastiche ed elettrodomestici dismessi

Anni e anni di discarica hanno inquinato irreparabilmente il sottosuolo e le falde acquifere sottostanti. Lentamente il corso dell’Odaw si è riempito di rifiuti. Rifiuti che il fiume trascina poi fino al mare, nel vicino Golfo di Guinea, e che contribuiscono a rendere ancora più gravi gli effetti dell’inquinamento avvelenando anche la fauna marina.




Articolo a cura di
Maris Davis

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24 maggio 2018

Cara di Mineo. Lo scempio delle ragazze nigeriane sfruttate nell'indifferenza delle istituzioni

Prostituzione e sfruttamento alla luce del sole al Cara di Mineo in provincia di Catania, il più grande centro di accoglienza d'Europa e che ospita, a seconda dei periodi, dai 2.500 ai 3.500 migranti.


Lo avevamo già denunciato nei nostri articoli, ma lo "scempio" continua

Da tempo gli occhi della magistratura sono puntati sul Cara di Mineo
Intervenendo lo scorso anno alla Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione, il presidente dell'Autorità nazionale anti-corruzione (Anac), Raffaele Cantone, ha preso la struttura a esempio della cattiva gestione dell'emergenza immigrazione.

"Quello di Mineo risultò essere il classico bando su misura, scritto in modo tale da escludere la concorrenza, escludendo la divisione in lotti: mancava solo che fosse indicato anche il nome del vincitore"

Quindi ha ricordato Cantone, "La vicenda ci colpì molto, contro il nostro provvedimento ci furono un vero e proprio fuoco di sbarramento e attacchi anche in qualche audizione parlamentare, mentre il Cara si rifiutò di revocare l'atto nonostante quanto oggettivamente emerso"

Ma non si tratta solo di corruzione, c'è anche la violenza contro le donne ospiti
Sia le autorità preposte alla sorveglianza della struttura, sia le varie cooperative che gestiscono gli appalti all'interno del Cara di Mineo, "vedono" le violenze, "vedono" gli stupri di ragazze sempre più frequenti, e soprattutto "vedono" lo sfruttamento a cui sono sottoposte le ragazze nigeriane, ma tacciono, e stanno zitti consapevolmente.

Lui entra nella stanza di lei sfondando la porta, poi la picchia, la spoglia e si getta su di lei per abusarla sessualmente. La violenza è interrotta da un migrante che vive nella stessa palazzina. Sarebbe una scena di «ordinario stupro» nel Centro accoglienza richiedenti asilo di Mineo quello che si è verificato due giorni fa nella struttura secondo il procuratore di Caltagirone Giuseppe Verzera che gestisce tutte le inchieste sul Cara di Mineo. Che ribadisce l’allarme: «è ingestibile, ed è un enorme problema di ordine pubblico»

E va oltre, «sono numerosi i casi di violenze sessuali registrate nel Cara di Mineo, e non tutti sono denunciati, per paura». Il magistrato è certo che nel centro ci sono «molte donne che vivono con la paura di essere stuprate»

«È ingestibile ed è un serio problema per l’ordine pubblico»


Volevano chiuderlo tutti ma è ancora aperto
Il C.A.R.A. di Mineo va chiuso perché perpetua una gestione securitaria, poliziesca, segregativa e non garantisce la realizzazione di alcuna quotidianità ai nuclei familiari, a chi vuol ricongiungersi o costruirsi la propria vita.

Volevano chiuderlo tutti, anche quel Salvini Matteo, che oggi assieme ai Cinque Stelle si appresta a governare l'Italia. Lo hanno detto tutti che quella struttura andava chiusa, politici di destra e di sinistra, gli unici a non volerla chiudere sono proprio i siciliani, dai politici alle cooperative che gestiscono gli appalti, dagli agricoltori che fruttano i migranti nelle campagne (per esempio nella raccolta di agrumi) e soprattutto per la mafia, quella siciliana, ma anche quella nigeriana. Per la Sicilia quel Centro di accoglienza è un business, il business delle vergogne inconfessabili sulla pelle di migliaia di immigrati.

375 dipendenti e un indotto che genera profitti milionari alle spalle dei migranti ospitati. Difficile chiuderlo, troppi interessi locali in ballo

Prostituzione alla luce del sole
All'inizio dell'anno dentro il Cara di Mineo una ragazza fu uccisa a coltellate, poche righe sui giornali e tutto è finito lì, nessuno si è scandalizzato.

Prostituzione alla luce del sole.
Se ne occupò anche la trasmissione "L'Aria che tira" de La7


Una situazione drammatica per le "ospiti" nigeriane del Cara di Mineo costrette a prostituirsi nei weekend in case in varie città della Sicilia, e durante la settimana addirittura intorno alla stessa struttura di accoglienza o sulla superstrada SS385, meglio conosciuta come la Catania-Gela.

Mai una sola visita da parte di un’organizzazione internazionale o di qualche associazione di volontariato. Solo Suor Chiara del progetto Migranti di UISP va a visitarle, a piedi nudi, in strada una volta alla settimana fornendo loro beni di conforto e vestiti.


Dall'interno del Cara di Mineo riceviamo in continuazione testimonianze via social e via whatsapp. Ecco le più recenti. Certo sono in un italiano stentato ma danno l'idea di quello che succede tutti i giorni, ogni giorno.

NON È SOLO QUESTO CHE TI HO SCRITTO, È CHE ALL'INTERNO DELLE CASE IN DOTAZIONE SONO SOGGETTE DURANTE IL WEEKEND A TARDA SERA VENGONO USATE PER INCONTRI DI SESSO FRA UOMINI LOCALI DEL PAESE. COSTRETTE DAGLI STESSI NIGERIANI OSPITI RICHIDENTI ASILO CHE CONSTRINGONO LE RAGAZZE A PROSTITUIRSI OK.

POI CI SONO LE CENE E I FESTINI IN CASE PRIVATE DOVE LE RAGAZZE SONO "INVITATE" PER FARE SESSO CON GLI OSPITI.

UNA RAGAZZA CHE AVRÀ FRA 16/17 ANNI CHE TUTTE LE MATTINE QUANDO LEI VIENE FUORI DAL CARA SARANNO LE 08 DEL MATTINO DEVE INCONTRASI IN UNA CASA ABBANDONATA NON LONTANO PIÙ DI 400 METRI DAL CARA A FARE SESSO IN MACCHINA. E IL RAGAZZO CHE LA SFRUTTA L'ASPETTA X POI FARSI DARE I SOLDI.

QUESTO E QUELLO CHE SUCCEDE POI DURANTE LA GIORNATA NON DISTANTE 100 METRI SI RADUNANO GRUPPI FRA DONNE E UOMINI CHE SI METTONO LI A FAR CAPIRE CHE PARLANO MA INVECE LE RAGAZZE ASPETTANO CHE IL CLIENTE VENGA A PRENDERLA CONTATTATO TRAMITE WHATSAPP OK.

MI SONO SPIEGATO MARIS QUESTE SONO LE NOVITA E NON È FINITA. OK CIAO
COME SEMPRE QUI AL CAMPO LE RAGAZZE FANNO IL LORO WEEKD DA DONNE USATE, È UNO SCHIFO VEDERE BAMBINE MANDATE FARE LE PROSTITUTE TUTTI LO SANNO MA NESSUNO FA NIENTE IO OH AVUTO DIVERSI SCONTRI MA MI È STATO DETTO DALLA MAFIA NIGERIANA DI FARMI GLI AFFARI MIEI, CHE SONO LORO STESSI OSPITI DEL CAMPO CHE SONO DELLA MAFIA NIGERIANA SONO LORO CHE GESTICONO TUTTO FRA DROGA CONTRABANDO E PROSTITUZIONE OK MARIS
IO LO SO IO LO VEDO TUTTI I GIORNI LE RAGAZZE CHE TUTTE LE MATTINE VANNO A LAVORARE MA LE ISTITUZZIONI STANNO A GUARDARE E I MILITARI CHE SONO A GUARDIA DEL CAMPO CONTROLLANO SOLO IL PERIMTRO DEL CAMPO.

MA NON DISTANTE DAL CENTRO DI ACCOGLIENZA GIA ALLE 8:00 DEL MATTINA CI SONO RAGAZZE SI PROSTITUISCONO X 10 EURO E FUORI C'È IL COMPAGNIO CHE ASPETTA CHE GLI PORTA I SOLDI.

IO CI PASSO TUTTE LE MATTINE È STRADA PUPPLICA CHE PORTA AL CENTRO DI ACCOGLIENZA, IL RAGAZO LO CONOSCO E UNO CHE È UN RESIDENTE DEL CENTRO DI ACCOGLENZA E SI NOTA DI LATO LE MACCHINE CHE ASPETTONO IL TURNO X ANDARE CON LA RGAZZA.

IL CAMPO È DISTANTE SOLO POCHI MINUTI OK CON QUESTO HO DETTO TUTTO.
IO L'HO SEGNALATO ANCHE AL RESPOSABILE DEL COMUNITA NIGERIANA MA NON FA NULLA COME ULTIMA VOLTA CHE È STATA AGREDITA E STUPRATA LA RAGAZZA AL INTERNO DEL CAMPO SONO STATI VIGILI PER UN PO'.

14 NIGERIANI SONO FINITI IN CARCERE, MA SIAMO ALLE SOLITE LA SERA QUANDO IL SI FA BUIO, GLI SFRUTTATORI LA FANNO DA PADRONI ANCHE DENTRO IL CAMPO.

LE STANZE DELLE RAGAZZE DIVENTANO STANZE DA APPUNTAMENTO CHE I SIGNIORI DAI PAESI VICINI VENGO A FAR "VISITA" ALLE RAGAZZE ACCOPAGNIATI DAGLI STESSI OSPITI DEL CAMPO.

NESSUNO FA NIENTE XCHE CI SONO PURE GLI STESSI OPERATORI CHE VANNO CON LE RAGAZZE OK. IO HO LA MIA PROTETTA CHE STA COME E COSI NESSUNO LA FA PROSTITURE OK.

IO INTERVENGO SE QUALCHE RAGAZZA SI RIBELLA. PIÙ DI QUESTO NON POSSO FARE XCHE C'È LA MAFIA NIGERIANA CHE TU CONOSCI BENE OK CIAO STAMMI BENE
Cara Maris x questo wkeekend sarà molto triste a vedere quello che succede.

Ieri sera ero impotente a vedere le ragazze che si preparavano x andare nei vari paesi e essere portate a prostituirsi io oh segnalato al responsabile della comunità Nigeriana e mi sono sentito rispondere che non può fare nulla x che c'è mafia Nigeriana e che se la avrebbero presa con la sua famiglia e che questa e la sorte che sono soggette le ragazze del campo.

E in Nigeria non è diverso xché li le ragazze x vivere e mangiare nelle famiglie povere è questa la vita che fanno ok. Qui secondo lui la vita è migliore anche se si prostituiscono.

Io sono rimasto senza parole e cosi mi sono preso mia protetta e a malincuore questa mattina le ho viste partire che faranno ritorno solo  martedì e nessuno controlla l'assenza degli ospiti del campo di accoglienza ok Maris ciao fai una buona domenica.
CIAO QUI AL CAMPO LA VITA X LE DONNE NON È FACILE XCHE QUI DANNO 2,50 AL GIORNO PIU UN PACCHETTO DI SIGARETTE E UNA BOTTIGLIA DI ACQUA.

GLI UOMINI POSSONO ANDARE A LAVORARE NELLE CAMPAGNIE MA LE RAGAZZE SONO SOGGETTE AGLI ABUSI DEGLI STESSI RESIDENTI DEL CAMPO E ANCHE DA ALCUNI OPERATORI CHE SI APROFITTANO DELLE RAGAZZE X FARE SESSO CON LORO IN CAMBIO DI QUALCHE EURO GIA.

APPENA CHE ESCONO DAL CENTRO SONO GIA LI CHE LE ASPETTANO I CLIENTI CHE SI METTONO IN CONTATTO TRAMITE WHATSAPP FRA LORO DEGLI UOMINI CHE LE OBLIGANO AFARE LE PROSTITUTE E LO FANNO PIU X PAURA. SE SI RIFITANO VENGONO BASTONATE E NESSUNO LI DENUCIA. XCHE DOVREBBERO ESSERE LE STESSE RAGAZZE A DENUCIARE MA NON LO FANNO X PAURA OK
CIAO COME TUTTI I WEEKEND IO SONO IN GIRO X LE STRADE DOVE CI SONO LE RAGAZZE DOVE SONO COSTRETTE A LAVORARE. IO NEL MIO PICCOLO LE PORTO ALL'ORA DI PRANZO UN PO' DA MANGIARE AFRICANO E DA BEVE. CIAO E FAI UNA BUONA DOMENICA
MARIS PER ME SARA UN LUNGO WEEKEND X CHE QUI A MINEO X LE RAGAZZE SONO I TRE GIORNNI IN CUI VENGONO TRASLOCCATE (portate) IN VARI PAESI. A CATAGIRONE, PALERMO, ENNA E VIA DI SEGUITO OK MESSE LI DALLA MATTINA ALLA SERA CON UN PANINO E UNA BOTTIGLIA DI ACQUA X 12 ORE A FARE SESSO. OK CIAO

E per finire, l'ultimo aggiornamento
"Ho letto il tuo articolo nel blog e tu hai letto il mio ultimo messaggio ?? In cui in cui ti dico che ce pure la strada che va dall'aereoporto di Catania lungo la strada x Scordia. È lunga circa 5 kilometri piena di ragazze nigeriane sia destra che a sinistra.

Ma il problema è alla sera perché non è illuminata ed è molto pericolosa. Per questo le ragazze si vedono appena. Ma loro accendono i fuochi x essere viste. Ok ciao, fai un buon weekend io sono qui al campo, ok ciao"





Articolo di
Maris Davis

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18 maggio 2018

Italia. Nove milioni di "clienti" del sesso alimentano la tratta delle nigeriane

È la denuncia forte e drammatica di Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata e presidente di ‘Slaves no more’, che da anni si occupa della tratta di ragazze a fini sessuali.

Suor Eugenia Bonetti con alcune ragazze nigeriane salvate dalla schiavitù sessuale

Sulle strade italiane ci sono centomila prostitute, 70-80mila sono africane, le altre provengono da Est Europa, America latina e Cina. Sono tutte vittime di un sistema che riduce in schiavitù le donne, che vengono violate fisicamente e psicologicamente”. Suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, sintetizza così il fenomeno della tratta delle donne.

La maggior parte delle vittime provengono dalla Nigeria. Sono quasi tutte minorenni e analfabete. Pensano di trovare in Europa un luogo di riscatto dalla loro povertà. Per questo motivo attraversano il deserto e il Mediterraneo, tra sofferenze e fatiche inaudite. Ma ciò NON impietosisce i trafficanti che, appena arrivate, le costringono a vendersi

Negli ultimi anni, prima di arrivare in Italia, vengono anche violentate e messe incinta. Sono stuprate sia durante il viaggio attraverso il deserto del Niger, che nei luoghi di detenzione in Libia. “I protettori sanno che le migranti incinte godono di percorsi facilitati per ottenere i permessi di soggiorno. Sanno anche che molti clienti di prostitute chiedono ragazze incinte. Questo dimostra l’aberrazione della tratta, la violenza dei trafficanti e la grettezza dei clienti”

Non si tratta solo di violenze fisiche, ma anche psicologiche. Le nigeriane vengono costrette a subire riti woodoo che le legano ai protettori. “Le ragazze non hanno strumenti culturali per resistere a questi riti. Credono realmente a ciò che viene detto loro. In più, esse subiscono quotidianamente le percosse e le minacce di violenze sulle famiglie di origine. Per questi motivi hanno paura a liberarsi dai protettori”

La prostituzione in Italia ha un giro di affari stimato in 32 miliardi di euro. Un capitale che fa gola anche alle mafie italiane che collaborano con i nigeriani. Per contrastare questo fenomeno, congregazioni religiose, Caritas e associazioni laiche hanno organizzato un lavoro in rete per aiutare le vittime della tratta.

A partire dagli anni novanta molte comunità religiose hanno iniziato ad accogliere le ragazze nigeriane fuggite ai trafficanti. Le abbiamo assistite dal punto di vista medico e psicologico. La abbiamo aiutate a studiare e a inserirsi nella nostra società. Da qualche anno, le aiutiamo anche a rientrare in patria. Per loro organizziamo progetti ad hoc e le accogliamo in due case una a Benin City e una a Lagos.

Lavoriamo a stretto contatto con le suore locali in un lavoro che sta dando ottimi risultati. Qui in Italia serve un maggior impegno nelle comunità cristiane per sensibilizzare la gente sul tema della tratta, anche perché la maggior parte dei clienti delle nigeriane sono italiani, cattolici e spesso già sposati o fidanzati.

Secondo fonti Caritas si calcola che in Italia nove milioni di maschi abbiano frequentato almeno una volta una prostituta. Tra questi, circa 2,5 milioni sono clienti abituali. Sono persone di tutte le età e di tutti i ceti sociali. Quasi tutti cattolici e battezzati.


La tratta di esseri umani è una delle attività illegali più lucrative al mondo. Rende diversi miliardi di dollari l’anno ed è il terzo ‘business’ più redditizio dopo il traffico di armi e di droga. La storia, che dovrebbe essere maestra di vita, sembra averci insegnato ben poco se oggi parliamo ancora di questa schiavitù, le cui vittime sono milioni di donne e minori.

La maggior parte delle persone che sbarcano in Italia sono donne, minorenni, analfabete e incinte. E dietro questo traffico di africane, soprattutto nigeriane, si nasconde l’incessante domanda di giovani vendute ed acquistate a fini sessuali.

Negli ultimi cinque anni gli sbarchi sulle coste italiane di giovani donne nigeriane è aumentato a dismisura, con una punta di 15.600 nigeriane tra il 2016 e il 2017. La maggioranza delle donne, “ridotte in schiavitù per essere usate e comprate da milioni di clienti italiani, il 90% dei quali battezzati, provengono da paesi precedentemente evangelizzati dai missionari, che con queste popolazioni hanno condiviso fatiche e sofferenze per comunicare la fede cristiana

Suor Eugenia Bonetti è l'autrice del libro "Spezzare le Catene", la battaglia per la dignità delle donne, edito da Rizzoli. Nel 2012 ha raccontato in un capitolo dedicato anche la mia storia personale.




Articolo di
Maris Davis

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09 maggio 2018

Gioia Tauro, la piana degli schiavi moderni. Nulla è cambiato dopo la legge sul caporalato

Sfruttamento e contratti non registrati. Le Istituzioni locali hanno cronicizzato problema


I “dannati della terra”. È questo il titolo del Rapporto 2018 sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro realizzato da Medici per i diritti umani (MEDU) e presentato a Roma pochi giorni fa. A otto anni dalla guerriglia, poco è cambiato. E la politica agisce in modo spesso contraddittorio.

I DANNATI DELLA TERRA. Rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro”

Da dicembre 2017 fino ad aprile 2018 la clinica mobile di MEDU (Medici per i Diritti Umani) ha operato per il quinto anno consecutivo nella Piana di Gioia Tauro prestando assistenza socio-sanitaria ai lavoratori migranti che anche quest’anno si sono riversati nella zona durante la stagione agrumicola.

Almeno 3.500 persone, distribuite tra i vari insediamenti informali sparsi nella Piana, hanno fornito anche quest’anno manodopera flessibile e a basso costo ai produttori locali di arance, clementine e kiwi. Condizioni lavorative di sfruttamento o caratterizzate da pratiche illecite e situazioni abitative di degrado e marginalizzazione continuano a rappresentare i caratteri dominanti in un contesto dove poco è cambiato rispetto agli anni passati.

Otto anni dopo la cosiddetta “rivolta di Rosarno, i grandi ghetti di lavoratori migranti nella Piana di Gioia Tauro rappresentano ancora uno scandalo italiano, rimosso, di fatto, dal dibattito pubblico e dalle istituzioni politiche, le quali sembrano incapaci di qualsiasi iniziativa concreta e di largo respiro.

Oggi più che mai, la Piana di Gioia Tauro è il luogo dove l’incontro tra il sistema dell’economia globalizzata, le contraddizioni nella gestione del fenomeno migratorio nel nostro paese e i nodi irrisolti ella questione meridionale produce i suoi frutti più nefasti.

Cosa è cambiato a Rosarno otto anni dopo la guerriglia, le proteste dei migranti contro il ferimento di uno di loro? Dopo la “caccia” e la rivolta?Mai più Rosarno”, avevano assicurato le istituzioni. “Lavoriamo nella Piana di Gioia Tauro da ormai 5 anni e la situazione è rimasta la stessa, molto critica, di grave e sistematico sfruttamento e precarietà giuridica dei lavoratori migranti”, dice Jennifer Locatelli, coordinatrice Medici per i diritti umani del progetto Terragiusta che ha assistito duemila lavoratori migranti.

Sono “i dannati della terra. È questo il titolo del “Rapporto 2018 sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro” realizzato da Medu. “Le istituzioni non sono riuscite ad adottare alcuna soluzione efficace. Si sono limitate a interventi di carattere emergenziale che ha reso cronica una situazione di marginalizzazione e di assenza di inserimento. Nonostante le dichiarazioni pompose che si sono susseguite soprattutto negli ultimi due anni

Da dicembre ad aprile la clinica mobile Medu ha operato nella Piana “prestando assistenza socio-sanitaria ai lavoratori migranti che anche quest’anno si sono riversati nella zona durante la stagione agrumicola”. Stagione in cui almeno 3.500 persone, “distribuite tra i vari insediamenti informali, hanno fornito anche quest’anno manodopera flessibile e a basso costo ai produttori locali di arance, clementine e kiwi

“Solo nel ghetto, la vecchia tendopoli ha ospitato circa 2.500 persone”. Senza acqua potabile, tra immondizia, bagni maleodoranti e fatiscenti, bombole a gas per riscaldare cibo e acqua, pochi generatori a benzina, materassi a terra o su vecchie reti e l’odore di plastica e rifiuti bruciati.

Nell'ultimo dei frequenti roghi che hanno più volte distrutto baracche, oggetti e documenti degli abitanti, il 27 gennaio scorso è morta una giovane nigeriana, Becky Moses. Il comune nella cui area si trova il ghetto, San Ferdinando, di anime ne conta 4.500. Finita la stagione, i lavoratori migranti si stanno spostando verso la zona della Capitanata, in provincia di Foggia: al momento, nella vecchia tendopoli, ci sono 7/800 persone. Un centinaio o più sono sparse negli altri capannoni.

Sempre più migranti tendono a restare anche dopo la fine della stagione. “Probabilmente perché non sanno dove andare. Molte persone sono in Italia da pochi anni, sono uscite dai centri di accoglienza e non hanno chiaro cosa fare. Tanti aspettano il permesso di soggiorno o il rinnovo: per quest’ultimo, nella questura di Gioia Tauro i tempi arrivano anche a sei mesi

Sotto accusa, per le associazioni, l’operato delle istituzioni, locali, regionali e nazionali. Nel mese di agosto dell’anno scorso è stata allestita un’ennesima tendopoli, la terza in ordine di tempo, che non ha tuttavia fornito una risposta adeguata: con 500 posti disponibili a fronte delle oltre 3.000 persone presenti, in assenza di assistenza medica, sanitaria e socio-legale e di mediatori culturali: ancora una volta “una soluzione di carattere puramente emergenziale

La clinica mobile di Medu ha prestato assistenza a 484 persone, realizzando in totale 662 visite. L’identikit del paziente è uomo, giovane, età media 29 anni, originario dall’Africa sub-sahariana occidentale. Non mancano le donne, circa 100 provenienti dalla Nigeria, quasi certamente vittime di tratta a scopo di prostituzione. “Girando per le strade della Piana è comune vedere donne nigeriane, ma non solo, che aspettano i clienti italiani che passano a prenderle durante il giorno

La maggior parte dei braccianti del ghetto di Rosarno non è irregolare. “Il 92,6% è regolarmente soggiornante”, si legge nel rapporto. “La situazione lavorativa è sconfortante. Oltre il 70% delle persone lavora senza contratto. Nel tempo c’è stato un miglioramento, anche in seguito ai controlli scattati con la legge sul caporalato del 2016. Ma il 27,8% delle persone ha contratti finti. Spesso si tratta di una lettera di assunzione e il contratto non viene registrato. O comunque non rispetta le condizioni dei contratti di settore

I lavoratori restano invisibili. Il report ricorda i dati forniti dal prefetto Andrea Polichetti, Commissario Straordinario per l’area del Comune di San Ferdinando: nel 2017 sono stati stipulati 21mila contratti agricoli nella Piana, 16mila a italiani e 5mila a stranieri. “È un dato che colpisce in modo doloroso girando per i campi di agrumi dove la presenza di braccia nere impegnate nella raccolta è quanto mai evidente

Il 34% delle persone lavora 7 giorni su 7. La metà dei lavoratori sa cos'è la busta paga, ma solo l’8,3% la riceve. I lavoratori vengono pagati a cottimo, soprattutto nel caso della raccolta di arance e mandarini: 50 centesimi per una cassetta di arance, 1 euro per i mandarini. Il pagamento diventa a giornata nel caso della raccolta di olive o in altre attività agricole. Poco più del 90% dei lavoratori percepisce tra i 25 ed i 30 euro al giorno. Le giornate lavorative non vengono dichiarate dal datore di lavoro nell'83,92%. Oppure viene dichiarato un numero di giornate molto inferiore a quelle svolte.

La filiera è assolutamente iniqua, l’obiettivo è quello del basso costo dei prodotti, di una concorrenza sempre più dura. La conseguenza è quella di lavoratori sempre più sfruttati”. E i lavoratori africanisono molto ricattabili. La maggior parte di loro vive nel limbo dell’attesa dei documenti

Qui non si parla di un’economia locale ma globale: le arance di Rosarno vanno a finire nei supermercati e vengono usate nella produzione di spremuta d’arancia. È stato fatto qualche passo avanti sul prezzo del succo d’arancia, mentre dalla GDO (Grande Distribuzione Organizzata) non ci sono segnali di apertura. “È molto probabile che le grandi aziende non sappiano in che condizioni è prodotto ogni singolo lotto, ma la sensibilità sulle questioni etiche deve crescere al punto da costringerli a organizzarsi per sapere”. Fondamentale èinvertire l’onere della prova. Dobbiamo trovare in etichetta ogni informazione sul rispetto dei diritti dei lavoratori, non essere costretti a indagare

E lo Stato? “Dovrebbe evitare di creare condizioni di sfruttamento. Se non dai i documenti crei persone ricattabili che per forza di cose vanno a finire nei ghetti. Bisognerebbe quindi eliminare i presupposti. Poi le proposte sono sempre le stesse: controlli e politiche abitative, quindi non fare tutto quello che è stato fatto in questi anni”

E la legge sul caporalato?Interviene a valle in termini penali quando la situazione si è già creata. È come se nel governo ci fossero diverse anime: alcuni creano il fenomeno, altri provano a contrastarlo. Devono mettersi d’accordo su politiche coerenti

Minniti vs Orlando. Semplificando. Non c’è una coerenza di interventi. Poi il tema del lavoro è lavoro, riguarda italiani, comunitari, e non comunitari. Sono tante le agenzie interinali che sfruttano gli italiani in condizioni simili. Come nel caso di Paola Clemente, morta nel 2015. Lavorava nella raccolta dell’uva ad Andria ed era assunta da un’agenzia interinale. È morta perché lavorava in condizioni veramente difficili. Il marito raccontava che guadagnava 27 euro al giorno. “Non è caporalato ma di fatto lo era: una forma di grave sfruttamento


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Articolo di
Maris Davis

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01 maggio 2018

Leah Sharibu, ancora prigioniera di Boko Haram perché non vuole convertirsi all'Islam

Il 19 febbraio scorso, durante un attacco di Boko Haram alla cittadina di Dapchi, furono rapite da una scuola femminile 110 studentesse.

Leah Sharibu
prigioniera di Boko Haram per non aver rinnegato la sua Fede Cristiana

Tra quelle ragazze c'era anche Leah Sharibu, una studentessa cristiana di 17 anni.

Di quel rapimento Amnesty International accusò l'esercito nigeriano perché non fece nulla per impedire l'attacco, e di conseguenza il sequestro delle ragazze. Tra le 14 e le 18.30 di quel 19 febbraio, le forze di sicurezza nigeriane hanno ricevuto almeno cinque telefonate in cui si segnalava l’avanzata di Boko Haram verso Dapchi, ma il grosso dell'esercito, nonostante si trovasse a solo un'ora di marcia dalla cittadina, non si mosse.

Nelle ore successive al sequestro perfino il governo federale cercò, inutilmente, di negare che le ragazze fossero state rapite. Una vicenda molto simile a quello che accadde a Chibok nel 2014 quando Boko Haram assaltò la scuola di quella cittadina e rapì 276 studentesse, anche allora i fatti dimostrarono l'inerzia dell'esercito che arrivò in ritardo a difendere Chibok dall'attacco dei miliziani jihadisti, e tutti i depistaggi messi in atto dalle autorità nigeriane per minimizzare la portata del grave fatto.

Il momento della liberazione delle 105 studentesse di Dapchi
Un mese dopo, il 21 marzo, a sorpresa Boko Haram libera 105 delle 110 ragazze rapite. I motivi di quella liberazione non sono chiari. Non è chiaro se ci sia stata una trattativa tra il governo e i miliziani, o se, cosa più probabile, ci siano state delle divergenze tra le varie fazioni di Boko Haram che ha preferito evitare il clamore mediatico di livello mondiale come quello seguito dopo il rapimento di Chibok del 2014 con la campagna #BringBackOurGirls.

Khadija Grema è una delle 105 studentesse liberate a sorpresa quel 21 marzo, e poi ha raccontato al Wall Street Journal di quel mese trascorso nelle mani dei miliziani islamici, dei momenti seguenti al rapimento e poi della liberazione.

Khadija racconta dei trasferimenti forzati per sfuggire all'esercito nigeriano, di quando dovevano cucinare per i loro rapitori, racconta anche della morte di quattro compagne che non hanno retto alla fatica dei trasferimenti forzati.


E poi Khadija racconta dell'unica cristiana del gruppo, Leah Sharibu, e di come i miliziani le avessero chiesto di convertirsi all'Islam e di indossare l'hijab e di come Leah sdegnosamente rifiutò. Leah non abiurò la sua fede cristiana, nemmeno in cambio della sua liberazione.

Alcune delle 105 studentesse di Dapchi liberate

Leah Sharibu, 17 anni, è ancora prigioniera di Boko Haram. Ancora prigioniera perché non ha voluto all'Islam

Per Leah si è mobilitato il web con l'hastag #FreeLeahSharibu





Articolo di
Maris Davis

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In Nigeria non si può più essere cristiani

Bambini e neonati uccisi, donne e disabili massacrati, case incendiate. Racconto della strage di Natale per mano dei pastori...