28 aprile 2017

Siccità, dalla Nigeria del nord al Corno d'Africa. Gli eco-profughi sono 157 milioni

Entro il 2050 nel mondo ci saranno 250 milioni di "rifugiati ambientali" e ogni anno cresceranno mediamente di 6 milioni. Secondo l'Internal Displacement Monitoring Agency, intere popolazioni hanno oggi il 60% di probabilità in più di essere forzati ad abbandonare la propria casa di quanto non ne avessero nel 1975. Si calcola poi che dal 2008 già oltre 157 milioni di persone abbiano dovuto spostarsi per eventi meteorologici estremi.
I Paesi più poveri subiscono le conseguenze peggiori
Il nostro pianeta sta subendo in maniera sempre più chiara e veloce, un cambiamento non dovuto a fenomeni naturali. Gli effetti dei mutamenti climatici, come è noto, riguardano tutti. L'impatto, però, che hanno sui Paesi più poveri e sulle popolazioni più vulnerabili, è decisamente maggiore. Negli ultimi anni, proprio a causa di queste alterazioni e delle susseguenti drammatiche condizioni ambientali, sono aumentate le migrazioni forzate di intere fette di popolazioni nel mondo.

Cambiamenti non dovuti solo a fenomeni naturali
Le emergenze umanitarie causate da disastri naturali, molto spesso di naturale non hanno nulla. Un classico esempio è quanto sta avvenendo in Sud Sudan dove centinaia di migliaia di persone sono state colpite da carestia e oltre un milione costrette alla fuga nel periodo tra la fine del 2016 e inizio 2017. Come testimoniano molti fonti accreditate, alla base di tale fenomeno c'è l'impossibilità di allevatori, coltivatori, contadini, di occuparsi del bestiame e delle terre in quanto non accessibili per via del conflitto in corso tra truppe governative e ribelli, non per l'aridità del terreno.

Esistono anche situazioni di conflitto, in apparenza estranee a motivi ambientali, che nascondono in realtà origini strettamente connesse ai cambiamenti climatici in atto. Una drammatico caso è rappresentato dalla guerra in Siria. La crisi, nota come primavera siriana, esplode dopo quattro anni consecutivi di siccità che avevano trasformato i terreni agricoli in deserto e creato problemi gravissimi all'agricoltura e all'industria.
Prendere coscienza dei rischi che si stanno correndo
La battaglia per la conservazione dell'ambiente non avrebbe senso se non fosse primariamente una lotta per l'uomo, in particolare l'uomo più fragile, più a rischio, quello che subisce drammaticamente sulla propria pelle gli effetti dei cambiamenti climatici. È necessario porre all'attenzione di tutti il tema degli eco-profughi e prendere coscienza dei rischi che stiamo correndo, e intraprendere azioni concrete personali e comuni perché il mondo sia più vivibile, a partire dalle popolazioni più vulnerabili.

Il fenomeno degli eco-profughi richiama da vicino quanto Papa Francesco esprime quando parla di "ecologia integrale", cioè l'importanza di riportare al centro dell'attenzione la persona. Si prenda davvero a cuore la cura della natura e dell'ambiente. Se ci si prende cura di uomini e donne, se la loro dignità viene difesa e promossa, se i loro diritti fondamentali vengono riconosciuti. Lavorare in questa direzione vuol dire lavorare per la pace e questo è il modo più alto e nobile di custodire la nostra Terra.
Siccità. Un killer che uccide fiumi, animali e uomini. La Situazione più grave in Somalia
Nel 2011 la siccità in Somalia uccise 250mila persone. Sei anni dopo, quella del 2017, cioè quella che si sta preparando in questi giorni, è già riconosciuta come molto più grave. Ci sono già migliaia di vittime e alla fine questa macabra contabilità registrerà una sorta di record, ancora più morti di quel tragico 2011 che i sopravvissuti ancora ricordano.

In Somalia la siccità minaccia sei milioni di persone. In tutto il Corno, nella Nigeria del nord e nello Yemen le persone a rischio sono venti milioni. La Somalia però tra tutte è il territorio che potrebbe subire i danni più gravi, sul piano delle vite umane e su quello del disastri ambientali. La siccità in Somalia sta infatti rendendo sterile un territorio che storicamente è stato una sorta di giardino del Corno d’Africa, quello “tra i due fiumi”, cioè quello tra il fiume Giuba e l’Uebi Shebeli, nel sud, l’unica porzione di Somalia nella quale si poteva praticare l’agricoltura.

Non solo la siccità sta prosciugando questi fiumi, sopratutto il Giuba che è diventato una specie di rigagnolo. Il suo corso è ormai una sofferenza. Nasce dall'altopiano etiopico e scende verso sud. Inizialmente raccogliendo l’acqua dalle ambe, le montagne , è un fiume a volte tumultuoso poi pian piano evapora e quando arriva in pianura arranca finché a qualche decina di chilometri dalla foce, dove si riunisce con l’Uebi Shebeli, non ce la fa più. Stremato offre le ultime gocce d’acqua al sole poderoso tanto che il mare a quel punto penetra nel suo letto fino nell'entroterra. E il sale marino brucia, per sempre, quella terra preziosa, l’unica adatta all'agricoltura.

Per la Somalia è una svolta tragica. Ed è una svolta economica, oltre che per l’agricoltura, anche per la pastorizia. La Somalia infatti è uno dei maggiori esportatori mondiali di dromedari, li esporta nello Yemen, nel Medio Oriente, nella penisola arabica. Ma questi animali soffrono la siccità e la mancanza di un territorio verde nel quale periodicamente nutrirsi. E negli ultimi mesi c’è stata una ecatombe di dromedari, ne sono morti già 400mila.

La siccità è un vero e proprio killer che lascerà il segno
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Articolo a cura di
Maris Davis

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22 aprile 2017

Tratta e prostituzione coatta. Troppe le minorenni sulla strada e troppi i clienti

Sono tra le 50 e le 70mila le donne costrette a prostituirsi in Italia perché vittime della tratta. Un fenomeno in costante aumento ed in evoluzione. Cresce infatti la domanda da parte dei clienti, di tutte le età e classi sociali, e di conseguenza cresce l’offerta di giovani donne “usa e getta” a prezzi sempre più bassi, fino a 10 euro.


Solo negli ultimi anni in Italia sono arrivate 12mila minorenni nigeriane. È la denuncia di suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata e presidente dell’associazione Slaves no more, da vent’anni impegnata nella lotta alla tratta, tra le prime donne coraggiose ad aver denunciato pubblicamente il fenomeno.

"Al mattino i trafficanti le prelevano nei centri di accoglienza e dopo una giornata in strada le riportano la sera, come se fossero in un bed and breakfast"

Slave no More è l'associazione fondata da Suor Eugenia Bonetti. Un impegno a 360 gradi con le unità di strada, le comunità di accoglienza protette, la rete di religiose Thalita Kum e i progetti di sensibilizzazione e reinserimento in Italia e nei Paesi di origine. In 20 anni la rete di religiose ha dato un futuro di lavoro e integrazione a 6mila donne, tolte dalla strada e dallo sfruttamento. Nel mondo sono 30 milioni i bambini, di cui il 68% in Africa, vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale, lavorativo, servitù domestica, traffico di organi, pratiche criminali.

Il 90% dei clienti sono cattolici. Informazione e sensibilizzazione sono dunque le priorità. Le parrocchie possono fare molto, anche perché il 90% dei clienti sono cattolici, forse non praticanti ma sono cresciuti in una cultura cattolica. È necessario far emergere i problemi che stanno distruggendo le famiglie. Necessario che tutte le parrocchie diventino sensibili solo così si può arrivare a un vero cambiamento di mentalità. Perché il problema è culturale: sempre più gente pensa che si possa comprare tutto, anche il corpo di una persona.

Nel 2017 non possiamo più tollerare che esista la tratta di esseri umani. È una vergogna. Il focus sul “cliente” è dunque fondamentale. Bisogna far capire che anche chi cerca sesso a pagamento è uno schiavo, perché diventa una dipendenza, come il gioco d’azzardo. Dobbiamo lavorare tantissimo per creare una cultura del rispetto. E far capire che non è lecito, perché queste donne sono schiave. C’è ancora pochissima informazione, molta gente non sa nulla e ha voglia di capire cosa sta capitando.

In Italia 12mila ragazze nigeriane minorenni. L’accento sul tema dei minori non è causale, nemmeno per la realtà italiana. Nel 2016 i minori migranti non accompagnati hanno raggiunto la cifra mai vista di 26mila. Negli ultimi mesi sono arrivate circa 12mila ragazze nigeriane. Sono tutte minorenni, analfabete e spesso incinte. Le scelgono nei villaggi, dove c’è minore istruzione e le legano a loro con i riti woodoo. I trafficanti sono oramai organizzatissimi.

Per contrastare il fenomeno è necessario essere altrettanto organizzati, per lavorare in rete con le comunità, le scuole, i media, le istituzioni. Le ragazze vengono accolte nei centri di prima accoglienza o nei centri Sprar, dove iniziano il lungo iter per la richiesta d’asilo. Hanno tutte un telefonino. Dopo poco tempo spariscono e si affidano ai trafficanti. Oppure le prelevano al mattino e le riportano la sera nei centri, per cui alla fine diventano una sorta di bed & breakfast. Hanno in mano il documento di richiedenti asilo, quindi le forze dell’ordine non possono portarle via dalla strada. Bisogna trovare delle soluzioni e capire come fare per bloccarle nei Paesi di origine, prima che partano. Stanno distruggendo una generazione di donne, famiglie e una intera società.

In Italia poche unità di strada. Suor Eugenia mette in evidenza, tra l’altro, la scarsità di unità di strada per avvicinare le ragazze e convincerle a denunciare gli sfruttatori e rifarsi una vita. «Ci sono associazioni che ricevono finanziamenti pubblici e lavorano in strada giorno e notte, ma servono persone preparate bene, che siano capaci di offrire opportunità e luoghi protetti a queste ragazze. Purtroppo moltissime non hanno strumenti culturali per capire che possono aspirare a una vita migliore. E poi sono terrorizzate dai riti vudu a cui sono state sottoposte. C’è tanto lavoro da fare, sia qui sia nei Paesi di origine»

In Nigeria negli ultimi anni la situazione è peggiorata, con maggiore povertà diffusa. Il Paese è ricco ma la ricchezza è in mano a pochi. Anche lì c’è da lavorare nelle scuole e nelle parrocchie per dire alle persone cosa capita alle loro figlie una volta che sono partite.

Suor Eugenia Bonetti
Intervista a Suor Eugenia Bonetti
Missionaria della Consolata, presidente dell'associazione «Slaves no more», impegnata da molti anni nella costruzione della rete di religiose e religiosi contro il traffico di esseri umani, ci parla degli aspetti drammatici di una delle piaghe più terribili del nostro tempo.

Nel 2012 Suor Eugenia Bonetti pubblicò "Spezzare le Catene", edizioni Rizzoli, un libro che racconta il dramma proprio della ragazze nigeriane vittime in Italia di schiavitù sessuale. Nel libro è raccontata in modo approfondito anche la mia vicenda personale.


Suor Eugenia, possiamo provare a spiegare in termini generali cosa si intende per 'tratta' delle persone?
«È una forma di sfruttamento delle persone che può essere di tipo lavorativo, sessuale o per trapianti di organi; c'è anche lo sfruttamento dei minori dovuto a tante ragioni, anche per le adozioni; in tutti questi casi parliamo di 'tratta' cioè di traffico. A muovere i fili ci sono i trafficanti, coloro che usano queste situazioni per ottenerne un guadagno. I trafficanti si occupano di gestire la tratta, e chi ci va di mezzo sono le persone più inesperte, più povere, quelle che stanno cercando di trovare un futuro e una vita migliore e spesso cadono nelle mani dei trafficanti; questi ultimi, a volte, sono persone di cui nessuno sospetta, riescono ad essere scaltrissimi pur di catturare le loro prede. Fino a qualche anno fa il traffico maggiore riguardava lo sfruttamento sessuale, perché c'era una grande richiesta di 'manodopera' a buon mercato. E' un fenomeno che prosegue, però attraverso una modalità specifica: quella dei richiedenti asilo»

In che modo?
«In sostanza si sfrutta l'arrivo di queste persone via mare, poi i trafficanti fanno fare alle vittime una domanda d'asilo politico, che la maggioranza di loro non si vedrà mai riconosciuto; è un meccanismo che coinvolge soprattutto donne minorenni poverissime. Queste si fanno tutto il percorso che le porte prima fino alle coste della Libia e poi da lì in Italia, e una volta sbarcate i trafficanti le inducono a fare richiesta d'asilo politico. Con questo documento entrano nei centri d'accoglienza, gli Sprar, (Servizio protezione richiedenti asilo e rifugiati); tuttavia da quel momento le donne sono in possesso solo della domanda d'asilo e per avere una risposta possono passare anche uno o due anni. Qui entrano in gioco i trafficanti. Questi ultimi infatti le hanno aiutate finanziariamente a venire in Italia, e hanno quindi messo sulle loro spalle un enorme debito che deve essere pagato poi con lo sfruttamento sulle strade. C'è da dire che da questi centri, durante il giorno, le persone possono entrare e uscire, così i trafficanti le vanno a prendere e le riportano, mentre la polizia di fronte a un documento con richiesta di asilo non può fare molto»

Il meccanismo perverso quindi è quello della restituzione di un debito.
«Sì, un debito di cui loro a volte non conoscono nemmeno il valore. Un valore che può arrivare a cifre fra i 50 e i 70mila euro; il più delle volte ora vengono prese di mira le ragazzine analfabete che sono più ricattabili»

Sta dicendo che anche la burocrazia, con i suoi tempi lunghi, agevola lo sfruttamento.
«Sì, e si va anche oltre. Perché trascorso il periodo dell'attesa di una risposta alla domanda d'asilo, queste donne si trovano ormai sul territorio italiano e continuano ad essere sfruttate fino a quando il debito non è saldato. Ma quando ciò avviene queste donne sono finite, distrutte. Si tenga conto che negli ultimi due anni, solo dalla Nigeria, sono arrivate 12mila donne, sono dati del Ministero degli Interni. Queste nigeriane sono in maggioranza minorenni, analfabete, ricattabili quindi, perché per altro sono sottoposte ai riti woodoo che sono violenti e hanno un impatto fortissimo su di loro, molte poi arrivano incinte. Gli sfruttatori sanno che quando una ragazza arriva incinta ha un canale preferenziale di aiuto. Non di rado sono state violentate e messe incinte apposta»

Ma chi sono i trafficanti, parliamo di organizzazioni che sono attive sia nei Paesi d'origine che di destinazione?
«Esattamente. Ma non si tratta per forza di enormi strutture, possono essere anche organizzazioni di poche persone, il trafficante può essere anche un familiare, un amico di famiglia, è qualcuno che sfrutta la fuga dovuta alla povertà, alla violenza di Boko Haram (il gruppo armato di matrice fondamentalista), per quel che riguarda la Nigeria. E prendono le persone più sprovvedute dalle famiglie più numerose, facendo credere che poi che queste giovani potranno dare un aiuto ai fratelli e alle sorelle rimaste a casa ad andare a scuola, ma i guadagni ovviamente vanno nelle tasche degli sfruttatori. Perché se una persona deve pagare un debito netto di 50-60mila euro, dovrà lavorare sulla strada non meno di 4-5 anni dato che adesso la tariffa è bassissima poiché la crisi economica ha inciso anche su questo; quindi si può arrivare anche a 15-20 euro a prestazione. La persona continua ad essere usata e non ha neanche la capacità di capire che l'hanno imbrogliata»

Ma nei Paesi d'arrivo, chi è che opera lo sfruttamento?
«C'è la connivenza di organizzazioni criminali italiane, ma il traffico vero e proprio è gestito da trafficanti nigeriani e soprattutto da donne nigeriane, le cosiddette maman, che le "custodiscono" dopo che sono sbarcate in Italia. Vengono prelevate dai centri di permanenza temporanea e portate sulla strada; tanto se vengono fermate dalla polizia hanno il cedolino della richiesta d'asilo»

Il quadro è terribile, ma da dove si può cominciare per invertire la rotta?
«Prevenzione e informazione, sia nei Paesi d'origine che nei Paesi di destinazione. A settembre sono stata in Nigeria, era un po' che non andavo, veramente il Paese è sprofondato in una miseria assoluta, eppure è pieno di petrolio, di ricchezze, ma la povera gente fa una vita estrema, nei villaggi non hanno nemmeno le scuole; la gente è disperata. E allora è disposta a credere a tutto anche perché le mamam quando vanno giù arrivano con grandi ricchezze, e fanno vedere che in Europa, in Italia, c'è lavoro si può star bene. C'è un'enorme ignoranza. E allora il lavoro che stiamo facendo, con la rete di religiose insieme alle Caritas e alle diocesi, è di far passare dei messaggi: guardate che l'Europa e l'Italia non sono il bengodi ma rappresentano un mondo di sfruttamento, guardate che mandate le vostre figlie verso la morte certa. C'è un grande bisogno di investire sulla prevenzione. Inoltre, una volta che le donne hanno vissuto questa esperienza ricostruirle è difficilissimo, sono svuotate, non hanno più parametri, e sono state abituate ad essere usate e ributtate, non hanno più il senso della loro dignità, hanno in mente solo i soldi»

Quale lavoro fate in questo contesto come religiose?
«Noi religiose siamo state le prime a capire la necessità di creare una rete fra Paesi d'origine, transito e destinazione. Abbiamo detto: i trafficanti sono organizzatissimi per catturare le loro prede, noi dovremo essere altrettanto organizzate per bloccare questo fenomeno e dare risposte alternative. E abbiamo creato questa rete, ormai mondiale, che si chiama Talitha Kum, che raggiunge tutti i gruppi di religiose che si sono formati nei singoli Paesi e nei continenti e a livello intercontinentale e li mette in continuo contatto fra di loro. Lavoriamo sempre in rete»

Quindi siete favorevoli a strumenti come quello dei 'canali umanitari' per gestire l'immigrazione?
«Certamente. L'importante poi è che su questi temi lavori con intelligenza. Le nostre case di accoglienza per esempio, hanno una tipologia particolare: le regole del gioco le facciamo noi. Se dobbiamo dare un'accoglienza diamola bene, creiamo occasioni di integrazione; che imparino a leggere e scrivere, teniamoli impegnati. Che poi è un modo per stabilire contatti positivi con le popolazioni locali; se infatti la gente vede queste persone girare a vuoto tutto il giorno, ragazzi che non sanno che fare dalla mattina alla sera, è naturale che alla fine si ribelli, che nascano preoccupazioni»

In quali altre aree del mondo il problema è particolarmente sentito?
«Nel sud est asiatico, per esempio, il problema è terribile, soprattutto per lo sfruttamento dei minori, dovuto anche al turismo. Ci sono queste bambine di 7, 8 o 9 anni sfruttate sessualmente, è un crimine contro l'umanità»

Emerge, da quello che dice, un dato: c'è un mercato, una domanda, una clientela nei Paesi ricchi.
«, il problema della richiesta. Noi dobbiamo puntare moltissimo sulla formazione dei nostri giovani. La formazione al rispetto della dignità della persona, spiegare che non basta pagare per fare ciò che si vuole, la dignità di una persona non si compra, e quindi c'è molto da fare. Noi, nei Paesi occidentali, dobbiamo investire sulla formazione e poi avere il coraggio di dire: 'non ti è lecito!'. Chi ha più il coraggio di essere come Giovanni Battista che ha detto: 'non ti è lecito' a costo della sua vita. Ma anche noi come Chiesa dobbiamo diventare voce di questi poveri»

Su questo tema la voce del Papa si è levata con forza.
«È una voce, la sua, che ci stimola in continuazione, come Chiesa, come istituti religiosi, è un grande sostegno e un grande appoggio. C'è però anche bisogno dei governi che stabiliscano delle leggi adeguate»


Va quindi perseguito anche il cliente?
«, d'altro canto oggi sulle strade non c'è più distinzione fra il giorno e la notte. Quando arrivai a Roma nel 2000, andavo sulla Salaria di notte e trovavo 40 nigeriane, adesso non c'è più differenza fra il giorno e la notte la donne in vendita sono dappertutto. Come si vende un sacco di patate si vende una donna. Che valori stiamo proponendo alla nostra società? C'è solo il valore del denaro, per cui io pago e posso fare quello che voglio. Ma non si può comprare la dignità e il corpo di una minorenne; la prevenzione va fatta nei Paesi d'origine, ma dovremmo lavorare anche moltissimo sulla richiesta, c'è bisogno si un lavoro a tappeto nelle scuole, nelle parrocchie. Non si sente mai in una predica accennare a questo problema. Tutte le realtà di Chiesa devono sentirsi coinvolte in questo enorme problema, purtroppo invece le conferenze episcopali non ne parlano mai. E questa è una cosa che deve cambiare, serve la voce dei vescovi»



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Maris Davis

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21 aprile 2017

06 Il Woodoo nella vita africana

La pratica del Vodun incominciò a permeare la vita di tutti i giorni della gente che la esercitava. Non c’è nessuna decisione presa nella vita quotidiana che lo escluda. Tutte le soluzioni alle difficoltà della vita possono essere trovate nelle pratiche "Woodoo"


Alcuni casi pratici. Una coppia che non riusciva a concepire un bambino non ha esitato a ricorrere a Vodun per fare la richiesta. Nello stesso registro, possiamo trovare una persona che sta cercando lavoro, una sposa che prova a migliorare lei stessa o la sua situazione sociale. Nel settore privato o nel pubblico ci si rivolge alle entità del Woodoo per trovare soluzioni. Nessun atto della vita di tutti i giorni può avvenire nel nostro ambiente per caso, esso va integrato in un processo generale che segue la percezione del mondo da parte la gente che pratica il Woodoo.

Sarebbe molto difficile da capire il Vodun ed i suoi adepti se uno non lo si considera nel suo contesto, nel suo ambiente per vedere come viene vissuto e praticato. Soltanto in un quarto di secolo, sono stati fatti dei cambiamenti profondi a questo fenomeno, cambiamenti dovuti ad un certo numero di situazioni socio-economiche che hanno interferito negativamente sui valori dell’etica e sulla moralità di alcuni seguaci e sacerdoti del Woodoo.

Essi hanno abbandonato completamente le linee guida di riferimento che sono l’essenza di Vodun. Si sono impegolati in operazioni sporche e malsane, influenzati da determinate forze, che nuocciono al modello fisico della società umana. Proiettano un modello che è l’antitesi del modello mantenuto e difeso in molti secoli. È espressione di leggerezza, di facile guadagno che apre la porta a tutte le forme di criminalità e involgarisce l’umanità.

Così stiamo assistendo all'emergere di una nuova classe di sacerdoti e seguaci del Woodoo che ostentano la loro opulenza ed i loro beni materiali sotto il sole, ma che sono visti come criminali e sono temuti e bisogna stare attenti ad avere a che fare con loro. 

Contrariamente a questa tendenza, fortunatamente ci sono ancora tantissimi sacerdoti che rimangono molto rispettosi dei principi cardinali del Woodoo e che ancora vivono in perfetta armonia con il loro ambiente e sono molto contenti malgrado la vita molto sobria che conducono. Detengono ancora la fiducia della loro gente, sono rispettati e molto richiesti. La tentazione è molto forte per coloro che hanno scelto di essere fedeli alla visione e di abbandonare gli usi diversi delle forze Woodoo disponibili e semplicemente alla loro portata che darebbero loro l’opportunità di diventare ricchi molto rapidamente e facilmente. Non la fanno a causa di un vincolo contrattuale, un giuramento che hanno fatto.

Questa forza di carattere ed il rispetto per l’impegno fatto mantenuto da questi "sacerdoti" rispettosi dei culti tradizionali ci porta a chiedere per quanto tempo resisteranno. Oggi stiamo assistendo ad un aumento nel costo della vita con una inarrestabile svalutazione dei valori monetari che porta ad un’acquisizione molto difficile dei beni di consumo e dei prodotti di prima necessità, tutto viene discusso in termini di sostegno.

Questa situazione, in un modo o nell'altro, va ad influenzare il comportamento, ma in che misura o quanto in profondità, soltanto il tempo ci darà la risposta. Ma quasi certamente, ci sarà sempre gente che resiste e resterà sempre fedele alle pratiche tradizioni del vero "Woodoo". Se il Vodun è sopravvissuto nonostante tutte le catastrofi umane accadute finora in Africa, vale a dire la colonizzazione e specialmente la schiavitù e tutti le relative conseguenze, non si vede che cosa possa avere ancora effetto su questa religione al punto da subire la perdita dei suoi valori originari.

I rischi di alcune alterazioni tuttavia sono ancora presenti, ma i mezzi e le possibilità per contenere e combattere queste forze esistono ancora. Malgrado la sua esistenza e resistenza nel tempo, il Woodoo rimane sconosciuto in molte parti del mondo.


Ci sono alcune pratiche destinate ad agire sulle persone da vicino e da lontano tramite meccanismi nascosti. Queste pratiche sono ben controllate dagli adepti di vari livelli, soprattutto da quelli che guidano il culto. Essi sono quotidianamente alla ricerca di tutte le forme di controllo sopra la natura tramite la conoscenza delle qualità delle piante e degli elementi di fauna selvatica.

Per essere più efficaci nei rituali, utilizzano anche ossa animali, capelli umani o unghie. Gli esseri viventi che vengono richiamati con questi elementi dipendono dalla persona dalla quale sono stati presi, dal momento che le unghie ed i capelli rappresentano l’intera persona nella credenza Woodoo. I sacerdoti di Vodun possono dominare queste forze medicinali e spirituali. Ma questa capacità ora è usata da coloro che usano le pratiche Woodoo per far danni e per guadagnare denaro facile.

(Continua, 06/14)
Questo articolo fa parte del progetto
"Il Woodoo e la Cultura Animista dell'Africa occidentale"

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Articolo a cura di
Maris Davis

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06 aprile 2017

La Cina sta colonizzando l'Africa, alla faccia dei diritti umani

L’Africa rischia di diventare una colonia cinese, ma forse lo è già.


Io la chiamo la terza colonizzazione di un'Africa sottomessa ai suoi dittatori e che non riesce ad affrancarsi dal potere economico che arriva dall'esterno dei suoi confini.

Africa ricca di risorse ma che "svende" le sue ricchezze solo a vantaggio di "pochissimi", fregandosene di ottocentomilioni di persone che invece vivono in miseria, tra guerre dimenticate dal mondo, sfruttamento, diritti umani negati e libertà mai conosciute.

Il presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, in una recente intervista è stato chiaro. Pechino replica piccata: “sconvolgente”, e invita Tajani a studiare “i concetti di base” della politica estera cinese". Ma l’Africa non rischia di diventare una colonia cinese perché già lo è.

E tutto ciò alla faccia del principio di non interferenza negli affari interni di uno Stato. Principio guida di Pechino che ha affascinato intere schiere di dittatori africani. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Lu Kang, sempre rispondendo al presidente del Parlamento europeo, spiega che il concetto di colonialismo non esiste nella politica estera cinese, né nella sua filosofia diplomatica.

Quello che in questi anni ha unito i popoli cinese e africano è stata la battaglia del continente africano contro il colonialismo europeo che è all'origine della povertà, delle turbolenze e di alcuni conflitti nell'Africa odierna.

Tutto vero, ma sessant’anni fa. Ora è tutta un’altra cosa.

La Cina è il primo partner commerciale dell’Africa. Le multinazionali di Pechino proseguono indisturbate la conquista del continente africano con un piano di investimenti di oltre 60 miliardi di dollari. Una conquista fatta di infrastrutture, delocalizzazione della produzione e manodopera, in cambio di risorse naturali. E nel 2016 sono cresciuti del 31% gli investimenti diretti non-finanziari delle imprese cinesi in Africa.

Un "viaggio" nelle miniere di cobalto della Repubblica Democratica del Congo è chiarificatore per rendersi conto delle condizioni disumane in cui vivono i lavoratori africani sotto il dominio delle multinazionali di Pechino. Il 60% del cobalto mondiale viene estratto nella Repubblica Democratica del Congo, il 90% del materiale estratto finisce in Cina, paese che domina la filiera congolese del cobalto con diverse aziende, tra le quali la "Congo DongFang Internetional Minning", che fa pare di Zhejiang Huayou Cobalt, uno dei più grandi produttori di cobalto al mondo.

Fosse solo questo. Tra miniere ufficiali e minatori improvvisati, si stima che siano centomila le persone che scavano con strumenti rudimentali, senza supervisione e misure di sicurezza. Amnesty International stima che si siano almeno 40mila ragazzini, a partire dai 7 anni, che lavorano a 2 dollari per 12 ore al giorno. E tutto questo sotto la supervisione attenta delle maestranze cinesi.

Di diritti umani non se ne parla, figuriamoci di diritti dei lavoratori. E i governi africani, che non sono certo in prima linea sul fronte dei diritti da far rispettare, se ne lavano le mani, proprio in virtù del “principio di non interferenza”, che a quelle latitudini si traduce in libertà di arricchirsi alle spalle del popolo.

Altro capitolo, non certo meno importante, è quello della presenza militare cinese in Africa. La Repubblica popolare cinese è l’ottavo paese per numero di unità militari che partecipano a operazioni di peace-keeping dell’Onu in Africa e il primo tra i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Per la prima volta Pechino ha deciso di far combattere i propri soldati in Mali e Sud Sudan. Un modo, questo, per proteggere i propri investimenti. Ma il salto di qualità c’è stato in Nigeria dove le truppe di Pechino si sono messe al fianco del governo di Abuja per combattere Boko Haram. Cooperazione politica, in questo caso, va a braccetto con l’esportazione di armi.

E ciò accade non solo in Nigeria. Basta andare nella Repubblica del Congo per vedere come è cambiata, ed è cresciuta, la presenza cinese nel paese. Se nel 2008 per le strade di Pointe Noire, la capitale economica del paese, si vedevano pochi cinesi, col passare degli anni è diventata una presenza “invadente” e molto visibile, non solo nei casinò della città, stracolmi di cinesi dediti al gioco, loro grande passione, ma anche nel creare vere e proprie comunità stabili. Tutto ciò di cui ha bisogno una comunità c’è: negozi con mercanzie cinesi, cibo, case, prostitute. Tutto arriva da Pechino e tutto fa ritorno a Pechino, o quasi.

Nel 2004, per esempio, l’Angola era “piena” di cinesi, ma non si vedevano. Chiusi nei cantieri e controllati da uomini armati. Perché? La maggior parte dei lavoratori proveniva dalle patrie galere cinesi (per loro il ritorno in Cina è vietato) fatto sempre negato da Pechino, ma al mondo è stato sempre impedito di sbirciare all'interno dei cantieri cinesi per vedere cosa succedeva. Cantieri che sono, tra l’altro, città nelle città.

Col passare degli anni il “pudore” è scomparso e la spavalderia ha preso il sopravvento. I mercati tradizionali di Luanda si sono riempiti di mercanzie cinesi. I cinesi stanno occupando prepotentemente anche gli spazi del piccolo commercio.

In Africa sta crescendo una classe media dagli occhi a mandorla. Ormai non si nascondono più. Nel 2009, durante la visita di Benedetto XVI in Angola, al passaggio del Papa, dai palazzi sono sbucati più cinesi che angolani, non certo per salutare il Papa, ma piuttosto incuriositi dall’uomo vestito di bianco.

I grattacieli che definiscono lo skyline di Luanda testimoniano la concretezza degli aiuti di Pechino. E c’è ne uno, forse il più alto, sulla cui cima sventola la bandiera della Repubblica Popolare Cinese.


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Maris Davis

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05 aprile 2017

Uccisioni e stupri di massa della Repubblica Democratica del Congo. Il silenzio del mondo

Sangue e violenze nella provincia del Kasai, che si è schierata apertamente contro la rielezione del presidente uscente Kabila. Attaccati anche vescovado e seminario. L'appello del Papa.


La scorsa estate i militari hanno ucciso un capo tradizionale locale dando il via alla rivolta. Il caos è culminato con il sequestro, il 12 marzo, di due esperti inviati dalla Nazioni Unite per investigare sulle fosse comuni.

Volontari italiani in fuga: "Avrebbero potuto ucciderci tutti". Don Jeanot Mandefu: "I soldati sono entrati all'università e hanno rastrellato gli studenti. Verrebbe da pensare che il motivo sia quello di far fuori quanti più giovani possibile in una regione scomoda perché si oppone al potere centrale"

Corpi massacrati, ammassati e gettati dai camion in fosse comuni
Siamo nel Kasai, provincia centrale di quell'enorme Paese che è la Repubblica Democratica del Congo. Una regione fino a non molto tempo fa tranquilla e risparmiata dalle guerre che da vent'anni insanguinano soprattutto l’est del Paese. Tutto però è cambiato dalla scorsa estate, quando uno "chef coutumier", un capo tradizionale locale, è stato ucciso dai militari regolari: i suoi fedelissimi, unendosi in una milizia chiamata Kamuina Nsapu, hanno iniziato una rivolta che per qualche mese è rimasta più o meno “a bassa intensità”. Fino all'inizio di quest’anno, quando nella regione è stato inviato un reggimento delle FARDC, l’esercito regolare. Ed è iniziata la mattanza.



Il secondo giorno di scontri in città abbiamo ricevuto la visita dei miliziani che hanno cercato di entrare in casa, hanno cercato di forzare le porte, ma le avevamo blindate. Li ho visti dalla finestra, erano una trentina, con loro diversi bambini di meno di dieci anni (bambini soldato). Il giorno successivo il colonnello della polizia e un colonnello dell’esercito sono venuti per accompagnarci a Kananga (il capoluogo di provincia), su un camion militare con a bordo un capitano, il colonnello dell’esercito e numerosi militari di scorta. Nel viaggio siamo stati bersaglio dei tiri dei fucili tradizionali dei miliziani per almeno 40 km. I militari hanno risposto al fuoco con migliaia di colpi e cinque di loro sono stati feriti. Gli ufficiali che erano in cabina con noi ci hanno assicurato che i colpi non potevano entrare in cabina perché blindata. Siamo rimasti a Kananga tre notti, poi ci hanno accompagnati all'aeroporto da dove siamo partiti per la capitale Kinshasa. Durante i due giorni di permanenza a Kananga, la città è stata attaccata due volte con decine di vittime. Potevamo essere uccisi tutti, sarebbe bastato che i miliziani avessero sbarrato la pista con un grosso tronco e ci avrebbero sterminati” .. È la testimonianza di un italiano (che chiede di restare anonimo per motivi di sicurezza) e che era in missione assieme ad altri tre italiani per conto del COE (il Centro di Orientamento Educativo), associazione che gestisce un ospedale a Tshimbulu, proprio nella zona epicentro degli scontri. E nel mezzo alle violenze si sono ritrovati anche loro.

Il caos nella regione è culminato con il sequestro, il 12 marzo, di due esperti inviati dalla Nazioni Unite per investigare sulle fosse comuni. I corpi di Michael Sharp, 34 anni, statunitense, e Zaida Catalan, 36 anni, svedese di origine cilena, sono stati ritrovati una settimana fa, insieme a quello dell’interprete congolese Bete Tshintela. La svedese è stata decapitata. Un orrore che ha scosso tutte le più alte istituzioni e ha gettato un faro sui massacri in corso nel Kasai. Sono seguite prese di posizione ufficiali da parte delle Nazioni Unite, degli Stati Uniti, anche del procuratore della Corte Penale Internazionale dell’Aja. Il 2 aprile anche il viceministro degli esteri italiano, Mario Giro, ha diffuso un comunicato molto preoccupato sull'aggravarsi della situazione in RDC. E il Papa, durante la visita a Carpi, ha ricordato il travagliato Paese.

Don Jeanot Mandefu, che dopo un dottorato in Italia è tornato nel suo paese e ora insegna all'università di Kananga, nel locale seminario e nell'accademia militare, dove è cappellano. Un punto d’osservazione privilegiato, il suo. E da lui viene la denuncia che pochi giorni fa i militari sono entrati all'università rastrellando gli studenti. All'opposizione di don Jeanot Mandefu, il comandante ha risposto: “Sono tutti miliziani. Ora li fermiamo tutti, poi vedremo

La popolazione dell’intero capoluogo è in fuga, i militari passano casa per casa, saccheggiano, uccidono e violentano, spiega ancora il sacerdote. Le voci si rincorrono, ben difficili da verificare. Si parla di 2500 morti in due sole notti a Kananga. Intanto l’Ufficio congiunto delle Nazioni Unite ai diritti umani, che sta documentando le fosse comuni, ha fatto sapere che sono passate da 7 a 23.

Come spesso capita in questi casi, le due forze in campo (militari e miliziani) si rimpallano le responsabilità. Ma a metà febbraio in rete è circolato un video che mostra alcuni militari mentre sparano su civili disarmati. Non solo: un video (in possesso de ilfattoquotidiano.it e che non può essere mostrato per la sua crudezza) documenta uomini in divisa militare che si accaniscono su giovani inermi, li massacrano e li gettano in una fossa comune.

Anche secondo don Jeanot non ci sono dubbi sulle responsabilità: "i miliziani non hanno armi, usano coltelli e machete, mentre i massacri in corso sono sistematici e organizzati. Impossibile dire quante persone siano state uccise finora, perché i corpi vengono fatti sparire"

Il caos fa il gioco del governo, che cerca ogni pretesto per rinviare il voto. Il Paese infatti si trova in una fase politica delicatissima. Il secondo e ultimo mandato del presidente Joseph Kabila è scaduto lo scorso dicembre, ma finora non sono state indette nuove elezioni. Dopo mesi di faticosissime trattative, si era giunti a un accordo fra maggioranza e opposizione, detto l’“accordo di San Silvestro”, che prevedeva un anno di transizione e elezioni entro la fine del 2017. Ma tutte le fasi stabilite dall'accordo non vengono rispettate dal governo. Il Paese è sull'orlo del caos.

Sintetizza bene la situazione Rosella Scandella, presidente del COE: “Il Kasai è la regione di origine di Tshisekedi, lo storico oppositore morto da poco (a cui è subentrato il figlio) e lì la gente ha una forte opposizione a Kabila. I soldati sparano senza ritegno sulla popolazione e verrebbe da pensare che il motivo sia quello di far fuori quanti più giovani possibile in una regione scomoda perché si oppone al potere centrale


Spinte separatiste in tutto il Congo
La rivolta nel Kasai ha già causato migliaia di morti e almeno duecentomila sfollati interni. Ma non è l’unica nella Repubblica Democratica del Congo: spinte secessioniste esistono nella ricca provincia del Katanga, nel Sud, disordini avvengono anche nella zona orientale, nel Kivu del Nord e del Sud, e nell’Ituri a Nord. Non va dimenticato, in tutto questo, che l'immenso territorio del Congo custodisce ancora enormi ricchezze naturali.

Uccisioni di massa in Kasai ordinate dal governo
Secondo fonti bene informate, e testimonianze che giungono dalla Chiesa locale, in tutto il Kasai stanno avvenendo in questi giorni eccidi e decapitazioni ai danni dei ribelli. Lo stesso presidente Kabila avrebbe inviato nella regione alti esponenti dell'esercito con l'obiettivo di infiltrarsi tra i ribelli per boicottarne i piani. Fallito questo progetto, sono stati mandati veri e propri "tagliagole" che hanno avviato un progetto di decapitazione di massa, nel silenzio del governo e del media di tutto il mondo.

Attacchi violenti contro la Chiesa
A fare le spese di questo clima di violenze è anche la Chiesa, nelle sue proprietà e nelle persone che la rappresentano. Nei giorni scorsi, nella capitale Kinshasa, i militari hanno saccheggiato il vescovado, distrutto il convento delle suore e il seminario minore. Non si sa dove siano rifugiati le suore e il vescovo. I soldati hanno fatto irruzione anche alla locale università, dove insegnano alcuni sacerdoti cattolici, e hanno rapito diversi studenti.

Un accorato appello arriva, via audio, da padre Jannod, docente all'università di Kananga. "I militari sono venuti a prendere i miei studenti» denuncia nella registrazione audio qui allegata. «Ho detto al generale: stanno solo studiando! Ma lui ha replicato che li considerava miliziani ribelli"




Il post di padre Giulio Albanese
Padre Giulio Albanese, grande conoscitore dell'Africa, a proposito dei fatti del Kasai pubblica su Facebook questo post




Articolo a cura di
Maris Davis

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