27 settembre 2016

Il Delta del Niger senza Pace. Decine di gruppi armati contro le compagnie petrolifere

Sono passati 21 anni dall'assassinio in Nigeria dello scrittore, candidato premio Nobel per la pace, Ken Saro-Wiwa, il giusto che voleva difendere il del Delta del Niger. Le estrazioni petrolifere di Shell, Chevron, ExxonMobil ed Eni continuano, anche se a ritmo rallentato. Così come proliferano gli attacchi dei gruppi terroristici agli impianti. Sono decine e decine le sigle di nuovi gruppi armati.

Niger Delta Avengers
Sullo sfondo c’è la situazione di estrema povertà della gente del Delta del Niger e l’estremo inquinamento dell’area. Un governo corrotto. E multinazionali che in questo quadro fanno fatica a operare. La povertà, con il ribasso dei costi delle materie prime e la mancanza di lavoro endemica, aumenta.

E allora succede che i giovani del posto, ormai è quasi una routine, aderiscono ai gruppi che attaccano le pipeline (oleodotti), per danneggiare la produzione e per portarsi a casa un po’ di greggio da rivendere sul mercato nero. Greggio che vale sempre meno. Così che non conviene poi così tanto investire per estrarlo. Le compagnie, ma anche i governi, ormai hanno perso tutte le speranze di trovare un accordo con le popolazioni locali. Troppi gli attentati e troppe le sigle di nuovi gruppi.

Nel 2009 è stata siglata un’amnistia con i ribelli del MEND, Movimento per l’emancipazione del Delta del Niger, il gruppo più conosciuto, che da allora ha deposto le armi. Ma le condizioni della gente del Delta, nonostante le promesse, non sono cambiate: povertà endemica, inquinamento massivo, mancanza di scuole e ospedali. Così, gli attacchi sono ripresi, con il sostegno tacito della popolazione locale.

La Nigeria è il primo produttore di greggio africano, l’ottavo produttore mondiale. La sola Shell, dagli anni ’60, ha estratto dal Delta una quantità di greggio pari a 30 miliardi di dollari

I ricavi (delle estrazioni petrolifere) dovrebbero essere ridistribuiti secondo la formula: 55% al governo federale della Nigeria, 25% agli Stati produttori dell'area del Delta, e il 20% alle comunità locali. Ma secondo il rapporto di 322 pagine prodotto qualche tempo fa da una Commissione d’inchiesta del Senato americano, alla fine i soldi del petrolio nigeriano dalle mani dei corrotti leader politici finiscono tutti in qualche conto estero nei paradisi fiscali, e di certo non contribuiscono al benessere della popolazione locale.

Delta del Niger, inquinamento
La lotta così si è ancora più radicalizzata con un aumento del numero degli attacchi, ai livelli più alti da 7 anni. Tanto da far dimezzare la produzione di petrolio del primo paese produttore africano. Il principale è stato un’esplosione sottomarina che ha distrutto la pipeline Forcados, ma c'è stata una dozzina di altri attacchi che hanno causato un calo della produzione nel Delta di oltre 700mila barili al giorno.

Il gruppo più temuto e più attivo è quello dei Vendicatori, i Niger Delta Avengers. Dallo spontaneismo degli "ogoni" (etnia locale) e di Saro-Wiwa si è passati all'organizzazione (anche armata): gli Avengers annunciano su Twitter i loro attacchi, conoscono le tecnologie, usano ordigni veri e ogni tanto diffondono comunicati in cui si dicono pronti a dialogare. Ma subito dopo spunta un altro gruppo che, mentre quelli tendono la mano, fa saltare qualche condotto o sequestra degli operai su qualche piattaforma.

Come il Niger Delta Green Justice, letteralmente "giustizia verde", che qualche settimana fa ha fatto saltare una pipeline di gas nelle paludi del Sud, o come il gruppo della Revolution Alliance, l’alleanza della rivoluzione del Delta. Per il Governo nigeriano, già in forte difficoltà nel nord con gli attentati degli integralisti islamici di Boko Haram, è difficile individuare il giusto interlocutore con cui tentare di avviare negoziati per un cessate il fuoco.

I gruppi del Delta sono decine, ognuno di essi è guidato da un "generale" che, a malapena, riesce a guidare il suo gruppo armato, senza un comando unificato. "I giovani non hanno prospettive, e la gente è abituata a vivere alla giornata, a pensare al breve termine, per questo pullulano le nuove sigle, e aumentano le reclute di questo strano e disperato esercito"

Nel giugno scorso il governo aveva annunciato un cessate il fuoco per poi rimangiarsi la parola dopo l’ennesimo attentato. Il ministro del petrolio, Emmanuel Ibe Kachikwu, qualche giorno fa ha ammesso che "i negoziati vanno avanti, ma non è facile giungere a un accordo complessivo. Noi abbiamo bisogno di un cessate il fuoco"

"La situazione è la stessa dei tempi di Ken Saro-Wiwa, e una soluzione non sembra essere dietro l’angolo"

Il governo nigeriano ha ripreso i pagamenti a favore dei ribelli, sospesi nel febbraio scorso, nel momento di maggiore recrudescenza degli attacchi. Nonostante i soldi gli attentati sono ripresi. E come arrivano soldi a qualche gruppo, ne sorge subito dopo un altro che rivendica lo stesso trattamento e fa saltare qualche pipeline. Insomma, un vero e proprio rebus.

Un po' di storia. L'attuale situazione del Delta del Niger ha origini profonde nella guerra del Biafra, quando tra il 1967 e il 1970, le compagnie petrolifere estraevano il petrolio mentre i bambini del luogo morivano di fame. Biafra, un nome che la Nigeria dei vincitori di allora ha cancellato anche da tutte le carte geografiche - La Guerra del Biafra (1967-1970) -

Altri articoli sulla situazione del Delta del Niger in questo Blog
"Tutti noi siamo di fronte alla Storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e a una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali ed intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale"
(Ken Saro Wiwa)

Il mio libretto "Niger Delta"

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Articolo a cura di
Maris Davis

22 settembre 2016

Le Guerre dimenticate dell'Africa e conflitti ignorati

Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Ucraina, ecco i nomi dei paesi travolti dalle guerre di cui maggiormente si sente parlare.

Motivi geopolitici, strategici e culturali, portano i riflettori a concentrarsi su questi conflitti piuttosto che su altri. Come in un moto di ciclicità, l'attenzione mediatica compie un anello di informazione centrifugo, un circuito d'interesse che porta ad avere notizie costanti su determinate questioni: l'Isis e i talebani, Al Qaeda e la questione libica, e le tensioni in Ucraina.

Ma ovviamente se da un lato la concentrazione sale, dall'altro questa diminuisce, fino quasi ad arrivare a un parossismo d'oblio mediatico che porta a coniugare il termine "guerre dimenticate" per altri conflitti, magari più devastanti, ma che non rientrano nel circuito mediatico-informativo internazionale.

La Giornata della Pace e le Guerre dimenticate. Scontri armati al limite tra guerra, proteste e terrorismo. Necessario prendere coscienza delle migliaia di morti silenziose. Andate per strada e chiedete a qualcuno quante guerre sono in corso nel mondo oggi. Non c'è una risposta esatta, quindi nessuno darà la risposta giusta, perché è sempre più difficile stabilire i confini tra guerra, rivolta, terrorismo, attacco e difesa, ma quello che è certo è che in oltre trenta Paesi del mondo si combatte e si muore in conflitti armati che coinvolgono, tra alleanze e supporti indiretti, un totale di una cinquantina di Stati.

In Siria, in Afghanistan, in Iraq e nella parte dell'Africa in cui opera Boko Haram (Nigeria, Niger, Ciad e Camerun), si sono registrate il maggior numero di morti nell'ultimo anno. La guerra in Siria, che coinvolge in un modo o nell'altro tutte le grandi potenze mondiali, ha già causato circa 35.000 morti quest'anno, tra cui molti civili. Dallo scoppio del conflitto nel 2011, in quella zona ci sono state almeno 300.000 vittime, secondo le stime più basse. Numeri leggermente inferiori al totale delle vittime in Iraq, dove però il conflitto scoppiato nel 2014, ma è solo l'ultima puntata di una guerra iniziata nel 2003 dagli americani.

Se questi conflitti riescono per lo meno a muovere l'interesse mediatico, gli oltre 500 morti (circa 6.400 nel 2015) in Yemen fanno molto meno rumore, nonostante coinvolgano l'Arabia Saudita, nostro prezioso alleato in Medio Oriente. Si combatte anche in Donbass, Ucraina Orientale. Oltre 4.000 morti lo scorso anno, più di 500 quest'anno.

Conflitti anche in Pakistan, dove l'esercito regolare combatte contro milizie Talebane, e ancora in Egitto, dove la coda della rivolta del 2011 causa tutt'oggi centinaia di morti (2.500 e più lo scorso anno, oltre 600 quest'anno).

Faceva parte dei Paesi coinvolti nella Primavera Araba anche la Libia, dove poi è intervenuto ISIS a complicare un quadro già parecchio controverso. I morti, quest'anno, sono quasi un migliaio.

A proposito di guerre asimmetriche, combattute cioè da eserciti statali contro organizzazioni para-militari o private, in pochi si immaginerebbero che il numero delle vittime nella lotta contro le bande della droga in Messico sono quasi 10.000 dal 2015. Un numero enorme, se si pensa che è più del doppio di quelle causate dalla guerra civile nel Sud Sudan, una delle tante guerre dimenticate dell'Africa.

Per le guerre di oggi è più giusto dire "Guerre ignorate" .. Analizzando le due parole viene difficile capire come si possa dimenticare la propria contemporaneità, si scorda il passato non il presente, questo tutta al più lo si ignora. Ma ignorare una guerra significa anche ignorare chi la vive e la subisce.


Le Guerre "ignorate" dell'Africa

Marocco. Nel Paese del nord Africa è in corso un conflitto a bassa intensità di cui poco si parla e localizzato in una regione dove i problemi legati allo jihadismo hanno adombrato le rivendicazioni ancestrali e le lotte politiche. Nel sud del Marocco prosegue la tensione tra l'esercito di Rabat e il Fronte Polisario della Repubblica Democratica Araba Saharawi.

Una guerra iniziata con l'indipendenza del Marocco nel '56 e poi acuitasi nel 1975, quando gli spagnoli abbandonarono la regione meridionale del Paese e questa venne occupata dagli uomini di Hassan II. Da quel momento ha preso vita la guerriglia della popolazione locale che rivendica l'indipendenza dal Marocco. Il cessate il fuoco nella regione si è verificato nel '91 in cambio della promessa di un referendum sullo stato del Sahara Occidentale, che però non si è mai verificato.

Oggi la popolazione Saharawi conta 170mila persone che dopo 23 anni non hanno ancora visto riconoscersi quel lembo di deserto che rivendicano. Crisi economica, precarietà, disinteresse internazionale, fallimento delle politiche di riconciliazione, muri e campi minati che hanno provocato la morte di oltre 2.500 cittadini, sono tutti fattori che oggi stanno facendo rinascere il Fronte Polisario. I guerriglieri hanno imbracciato di nuovo le armi dichiarandosi pronti a combattere per ottenere ciò che la politica e le trattative non gli hanno mai dato.

Mali. La guerra in Mali è tornata di recente sui grandi media dopo che il 20 novembre, un commando jihadista ha assaltato l'Hotel Radisson Blue a Bamako e ha fatto una strage uccidendo più di 20 persone. È così ritornata sotto la luce dei riflettori una guerra dimenticata e in corso dal 2012.

Nel Paese africano infatti, tre anni fa, nel nord, scoppiò un conflitto dovuto alla sollevazione di una milizia tuareg, l'MNLA (Movimento Nazionale di Liberazione dell'Azawad), che mirava alla creazione di uno stato tuareg nell'area settentrionale del Mali. I guerriglieri laici dopo soli tre mesi sono stati però sconfitti dai gruppi jihadisti ed estromessi dalla regione.

È così che hanno preso sempre più piede le formazioni islamiste che hanno occupato l'intera porzione settentrionale del Mali. Nel 2013 una missione internazionale ha posto fine al controllo dell'area da parte dei gruppi legati alla jihad, ma non sono stati sradicati del tutto dal territorio e ancor oggi persiste la guerriglia delle formazioni affiliate ad al Qaeda e all'Isis. Nello specifico queste sono: Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), Al Mourabitoun, Mujao (Movimento per l'Onestà e la Jihad in Africa Occidentale), Ansar Dine e il Fronte di Liberazione della Macina.
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Nigeria. Un conflitto che coinvolge, seppur in forma più marginale, anche il Camerun, il Niger e il Ciad. Una guerra che riguarda la lotta all'estremismo jihadista di Boko Haram. Per quel che concerne la Nigeria, dove la setta è nata, ha fatto proselitismo e ha compiuto stragi, si può parlare di guerra dimenticata dal momento che le notizie che sopraggiungono dal Paese più popoloso d'Africa anche se costanti e le azioni del gruppo monitorate, sono però relegate nelle pagine interne dei giornali e nei titoli di coda dei telegiornali, anche se, solo negli ultimi due anni e solo in Nigeria i morti sono stati più di cinquemila.

Lo scenario che si è venuto a creare negli stati limitrofi dove Boko Haram (che in lingua Hausa significa l'educazione occidentale è proibita), ha esportato il terrore, è quello di una "guerra ignorata". Stragi nei campi profughi collocati nell'area del Lago Ciad e incursioni nei villaggi di confine, ed è così che la formazione legata al Califfato ha provocato negli ultimi due anni 500 morti in Camerun, 100 in Ciad e 100 in Niger.

I morti complessivi, della guerra del terrore avviata dal gruppo nigeriano nel 2009, sono oltre 25mila. Oggi a contrastare sul campo i guerriglieri islamisti c'è una coalizione internazionale costituita dalle truppe di Ciad, Camerun, Niger, Benin e Nigeria.
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Sudan. Il Sudan è il Paese dei conflitti dimenticati per antonomasia. Il dittatore Omar al Bashir alla guida dello stato africano dal 1989, condannato dal tribunale dell'Aja per crimini di guerra e contro l'umanità, per nascondere al mondo ciò che sta avvenendo nel suo stato ha reso impossibile l'accesso a giornalisti e ONG. In particolar modo l'ingresso è negato nelle tre aree dove sono in corso i conflitti tra le forze ribelli locali, supportate da una popolazione ormai allo stremo, e il governo centrale di Khartoum.

Le regioni dove in Sudan si combatte sono il Darfur, i Monti Nuba e il Blue Nile. La prima, il Darfur, è falcidiata da un conflitto iniziato nel 2003, ribattezzato anche "genocidio del Darfur". A scontrarsi i janjaweed, i cosidetti demoni a cavallo, miliziani di origine araba e appartenenti a popolazioni nomadi sostenuti dal governo centrale, contro i gruppi etnici locali formati da popolazioni non arabe e dedite all'agricoltura.

Il conflitto in Darfur è stato dettato da una disparità di trattamento tra le popolazioni arabe e africane e dall'accentramento delle risorse da parte del governo a scapito delle popolazioni che abitano le aree periferiche del Paese. In undici anni le stime parlano di oltre 300mila morti e 450mila sfollati.
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Le altre regioni invece interessate dalla guerra sono i Monti Nuba e il Blue Nile, e le origini del conflitto in corso in queste zone sono da far risalire alle guerre civili sudanesi che hanno visto combattere, in due conflitti, il nord e il sud del Paese. Le ostilità tra Juba (oggi Sud Sudan) e Khartoum (Sudan) sono cessate nel 2005. Nel 2011 il Sud Sudan è divenuto indipendente, ma le regioni dei Monti Nuba e del Blue Nile che hanno lottato a fianco dei separatisti del sud, dopo gli accordi, sono rimaste all'interno dei confini del Sudan. Ecco quindi che sono scoppiate di nuovo le ostilità tra l'esercito sudanese e i guerriglieri dell'SPLA-N (Soudan People Liberation Army North). Le due regioni vengono bombardate quotidianamente dall'aviazione governativa, la guerra ha coinvolto oltre duemilioni di persone e i profughi sono oltre 500mila.
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Sud Sudan. Nel 2011, dopo 20 anni di guerra e 2 milioni di morti, il Sud Sudan diviene indipendente. Lo stato più giovane dell'Africa celebra l'indipendenza e la fine delle ostilità contro il nord del Paese governato da Omar al Bashir. Ma la pace nel neonato stato dura poco.

Nel dicembre del 2013 scoppia infatti una nuova guerra civile che vede contrapporsi i soldati di etnia Dinka, legati al Presidente Salva Kiir, contro le forze fedeli all'ex vicepresidente Machar di etnia Nuer. Il 15 agosto 2015 sono stati firmati gli accordi di pace, ma nonostante ciò le violenze proseguono in diverse aree del Sud Sudan e il governo di unità nazionale che era stato concordato nei patti non è stato ancora costituito.

Le stime dicono che in Sud Sudan in due anni di scontri decine di migliaia di persone sono state uccise, due milioni di civili sono stati costretti ad abbandonare le proprie case, 4,6 milioni di persone stanno affrontando una crisi alimentare e inoltre quello che è emerso da un rapporto dell'Unione Africana è che sia le milizie ribelli che l'esercito governativo hanno commesso crimini atroci, esecuzioni sommarie, stupri, mutilazioni torture e persino atti di cannibalismo.
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Repubblica Centrafricana. Il piccolo Stato d'Africa è salito alla ribalta delle cronache nel 2015 per essere stato il primo Paese in guerra, nella storia, ad aver accolto una visita pontificia. A novembre Papa Francesco si è recato a Bangui, ha aperto la Porta Santa e ha invitato i fedeli musulmani e cristiani e le autorità religiose a lavorare insieme per porre fine alle violenze e ricostruire la convivenza e la pace.

In Centrafrica dal dicembre del 2012 è in corso un conflitto civile. La guerra è iniziata dopo che i ribelli a maggioranza islamica, appoggiati da mercenari del Ciad e del Sudan, hanno dato vita alla coalizione della Seleka. La ribellione in soli tre mesi ha preso il controllo della capitale Bangui ma l'avanzata degli insorti è coincisa con l'inizio delle persecuzioni nei confronti della popolazione cristiana e animista che si è quindi unita nelle formazioni Anti Balaka.

Lo scontro, anche se gli analisti sostengono sia dovuto per il possesso delle risorse del sottosuolo, è degenerato quindi in una lotta confessionale. Nemmeno le missioni internazionali, la visita del Papa e l'elezione di un nuovo presidente, ha portato a una cessazione delle ostilità. Il Centrafrica si trova oggi diviso in due. Nell'ovest comandano i gruppi legati agli Anti-Balaka, e nell'est i musulmani della Seleka. La guerra ha provocato oltre un milione di profughi e 5mila morti.
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Somalia. Il paese del Corno d'Africa dagli anni '90 ad oggi è in balia di una guerra infinita. La crisi somala ha avuto origine con la caduta di Siad Barre e l'ascesa dei War Lords (Signori della Guerra). Poi, terminata la loro epoca, sul proscenio del conflitto somalo, sono apparse le Coorti Islamiche e poi i terroristi di Al Shabaab.

Oggi, sebbene i ribelli jihadisti siano stati cacciati dalle principali città del Paese, il conflitto comunque perdura. Gli islamisti infatti controllano ancora porzioni della Somalia, soprattutto nell'entroterra, e la loro guerriglia che mira ad uccidere rappresentanti del governo, dell'Unione Africana, soldati dell'esercito somalo e giornalisti, continua a rivelarsi vincente. Sul terreno quindi quotidianamente si verificano scontri tra le formazioni qaediste e le truppe del contingente Amisom dell'Unione Africana e intanto la popolazione è ridotta allo stremo.

Da quando è scoppiato il conflitto si parla di oltre 500mila morti, un milione di rifugiati interni e un milione sono i cittadini che hanno abbandonato il Paese. Il nuovo governo, formatosi nel 2012, che doveva transitare la Somalia verso le libere elezioni del 2016, si è rivelato fallimentare. Le elezioni infatti non saranno a suffragio universale e i leader politici sono accusati di malversazione, corruzione e cattiva gestione degli aiuti umanitari.
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Repubblica Democratica del Congo. L'ex Zaire è una terra di enormi ricchezze e pochissima stabilità. L'ultimo grande conflitto di cui si è sentito parlare è stato quello del 2012-2013 che ha visto confrontarsi i ribelli Tutsi dell'M23 in Nord Kivu contro le truppe delle FARDC. Ma sebbene quello scontro sia cessato, oggi nel territorio della Repubblica Democratica del Congo ci sono decine di gruppi guerriglieri.

Una catalogazione effettuata dal Congo Research Group parla di 69 formazioni in armi, pronte a combattere per un pugno di terra. Le ragioni principali che stanno alla base di quest'universo ribelle sono da ricercarsi nella ricchezza del sottosuolo e quindi nel controllo di diamanti, oro e coltan. Ci sono anche formazioni con un'impostazione politica più marcate come le FDLR. Quest'ultimi sono legati alle milizie hutu che nel '94 diedero inizio al genocidio del Rwanda e oggi proseguono nella loro attività di destabilizzazione e guerriglia sfruttando le foreste congolesi come rifugio in cui pianificare le azioni.

Nell'ultimo anno inoltre si sono verificati incidenti anche Kinshasa dovuti alla volontà del Presidente Kabila di candidarsi per il terzo mandato consecutivo, sebbene la costituzione lo impedisca.
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Burundi. Un'escalation di violenza, un clima da guerra civile e prodromi di un possibile genocidio stanno caratterizzando il piccolo stato della regione dei Grandi Laghi. La storia recente del Burundi è puntellata da guerre etniche e massacri, ma è da aprile 2015 che la situazione è nuovamente precipitata, quando il presidente Nkurunziza ha annunciato di volersi candidare per un terzo mandato violando così la Costituzione.

L'opposizione formata da Hutu e da Tutsi, subito si è sollevata, ma le proteste sono state represse nel sangue. Il 21 luglio 2015 si sono svolte le elezioni e, com'era prevedibile, Nkurunziza ha vinto. L'opposizione si è armata e ha iniziato a diffondersi così il terrore nel Paese. La dimensione etnica all'inizio era sembrata secondaria, ora invece pare che la propaganda di Nkurunziza stia spostando il baricentro verso uno scontro etnico e si teme quindi che un nuovo orrore come quello avvenuto nel '94 in Rwanda possa perpetrarsi di nuovo.
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Etiopia. In Etiopia una rivolta interna di alcuni gruppi etnici e religiosi, tra cui gli Oromo, che chiedevano riforme nel Paese, ha causato la dura reazione del governo, che ha risposto con una repressione violenta, causando la morte di centinaia di civili e avvicinando il Paese ad una vera e propria guerra civile.

Mozambico. Difficile leggere notizie anche del Mozambico, in cui la Resistenza Nazionale (Renamo) ha ripreso le armi già da qualche anno contro il governo centrale. Migliaia di profughi mozambicani hanno così provato ad entrare in Malawi, per trovare rifugio a quella che sta diventando, a tutti gli effetti, una guerra civile.

Angola. C'è il petrolio al centro della vicenda del Cabinda, enclave del popolo bantu in Angola. Prima dell'avvento degli Europei (giunti in Africa Occidentale alla fine del XV secolo), l'attuale provincia era parte del regno bantu di N'Goyo. A metà del XVI secolo, il regno divenne protettorato del Portogallo.

Nel 1975, l'Angola ottenne l'indipendenza, e Cabinda fu inclusa come provincia della nuova nazione. Da allora iniziò un lungo periodo di instabilità politica, tuttora non risolta, con continui scontri fra il FLEC (Front for the Liberation of the Enclave of Cabinda) e l'esercito angolano. Decine di morti anche quest'anno, mentre l'Angola cerca di placare le mire indipendentiste della regione.

Altri conflitti "ignorati"

Messico. Da oltre dieci anni nel paese centroamericano va in scena una guerra tra lo Stato e i cartelli della droga. Fosse comuni, studenti scomparsi, giornalisti uccisi più che in qualunque altro conflitto, questo è quanto sta avvenendo nella repubblica dell'America Latina. Anche le cifre sono discordanti sulle proporzioni della tragedia. Si calcola che il conflitto per la droga ha provocato oltre 100mila morti e 26mila persone sono scomparse e mai più state rinvenute.

Colombia. Tra le guerre dimenticate non può mancare quella tra le Farc e le truppe governative colombiane. Sulle Ande, tra le giungle della Colombia, sono ancora presenti le forze della guerriglia più longeva della storia. Però una svolta radicale per il futuro del Paese latino-americano sembra essere stata raggiunta nel 2015, quando una tregua bilaterale è stata firmata dalle due parti in causa e gli accordi di pace che stanno andando in scena all'Avana sembrano raggiungere traguardi importanti.

Nagorno Karabakh. È una guerra dimenticata dagli uomini e dalla storia, quella tra Armenia e Azerbaijan combattuta per la regione contesa del Nagorno Karabah. Un conflitto quello caucasico che affonda le sue radici nell'epoca sovietica, quando l'imperialismo staliniano ridisegnò i confini del territorio dell'URSS senza considerare le divisioni etniche e religiose presenti. È così infatti che nel dicembre del '91, gli armeni del Nagorno Karabakh votarono per l'indipendenza dall'Azerbaijan, ovviamente ignorata dal governo centrale.

Nel 2014 si è registrato un acuirsi degli scontri e sul fronte della guerra armeno azera si continua ancora adesso a combattere tra camminamenti e trincee, con frequenti scambi di colpi di mortaio.

Kashmir, la regione di frontiera tra Pakistan e India. Le ragioni affondano nella storia del periodo coloniale. Immediatamente dopo l'indipendenza infatti incominciarono a sorgere problemi tra le due nazioni. Gli accordi prevedevano la nascita di due stati, uno a maggioranza islamica e l'altro induista, ma la partizione su base religiosa, che diede vita al Pakistan e all'India, non avvenne per quel che riguardò la piccola regione himalayana.

Il sovrano locale, il Maharaja Hari Singh, decise infatti di annettere il Kashmir all'India. Immediata scoppiò quindi nel '49 la prima guerra tra due Paesi che si concluse con la divisione della regione in due parti una appartenente all'India e l'altra al Pakistan, ma che il Pakistan non ha mai accettato del tutto. Solo nel 2016 il conflitto ha causato almeno duecento vittime. Il quadro è particolarmente complesso dato che alcune truppe rivoltose sembrano essere appoggiate dal Pakistan.

Birmania. La guerriglia che va in scena in Birmania è connaturata nella storia recente dello stato orientale, noto anche come Myanmar perché così era stato ribattezzato dalla giunta militare nell'89. Per comprendere le ragioni del conflitto di oggi bisogna risalire al 1949 quando il Presidente Aung San, dopo l'indipendenza, firmò il "Trattato di Planglong",che consentiva ad ogni etnia di scegliere il proprio avvenire politico e sociale.

Ma con il golpe del generale Ne Win e la presa del potere da parte della giunta, l'accordo non è mai stato rispettato e la minoranza etnica dei Karen è stata perseguitata. È iniziato così quindi il conflitto che a fasi alterne perdura ancor oggi e che vede contrapporsi i movimenti indipendentisti Karen contro il governo centrale. Le vittime, solo quest'anno, potrebbero essere più di 1.000. Si stimano almeno 500.000 rifugiati interni.


A che cosa serve la giornata della pace che si ricorda ogni 21 settembre, probabilmente non a risolvere nemmeno uno di questi conflitti, ma piuttosto a prendere coscienza prima di tutto di un problema di informazione, ma anche dello stallo diplomatico in molte aree del mondo e del totale disinteresse della comunità interazionale per zone e nazioni lasciate sole, almeno finché non saranno toccati gli interessi giusti


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Articolo di
Maris Davis

18 settembre 2016

Report Amnesty International sui crimini di Boko Haram in Nigeria

Donne e Ragazze rapite costrette a combattere tra le fila di Boko Haram. Amnesty International ha documentato i crimini dei miliziani islamici tra il 2014 e il 2015 in Nigeria.

Dall'inizio del 2014 sono almeno 3.000 (tremila) le donne e le ragazze rapite da Boko Haram, costrette a diventare schiave sessuali, o a seguire l’addestramento in preparazione al combattimento, oppure fatte diventare delle kamikaze. Lo afferma Amnesty International in un report basato su prove documentali e interviste a testimoni oculari.

Il rapporto di 90 pagine "Our job is to shoot, slaughter and kill. Boko Haram’s reign of terror" (Il nostro lavoro è sparare, massacrare e uccidere. Il regno del terrore di Boko Haram) è basato su quasi 200 testimonianze, tra le quali anche quelle di 28 donne e ragazze rapite e poi fuggite. Il testo documenta numerosi crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi da Boko Haram, inclusa l’uccisione di almeno 5.500 civili quando, nel corso del 2014 e nei primi mesi del 2015, il gruppo armato ha scatenato la propria furia attraverso la Nigeria nord-orientale.

Il rapporto di Amnesty International getta una nuova luce sui metodi brutali impiegati dal gruppo armato nella Nigeria nord-orientale, dove uomini e ragazzi sono arruolati regolarmente o sistematicamente messi a morte e dove giovani donne e ragazze vengono rapite, imprigionate e in alcuni casi stuprate, sposate con la forza e costrette a partecipare ad attacchi armati, a volte nei loro stessi villaggi d’origine.

Secondo Salil Shetty, Segretario generale di Amnesty International, "Le prove presentate da questo scioccante rapporto, sottolineano l’ampiezza e la depravazione dei metodi di Boko Haram. Uomini e donne, ragazzi e ragazze, cristiani e musulmani sono stati uccisi, rapiti e seviziati da Boko Haram durante un regno del terrore che ha toccato milioni di persone. Successi militari recenti potrebbero segnare l’inizio della fine di Boko Haram, ma moltissimo resta da fare per proteggere i civili, risolvere la crisi umanitaria e dare il via al processo di riconciliazione"

Il rapporto include prove grafiche, tra le quali nuove immagini satellitari, dell’ampiezza della devastazione che Boko Haram ha lasciato dietro di sé.

Rapimenti. Le 276 liceali rapite a Chibok nell'aprile del 2014 sono state al centro dell’attenzione internazionale grazie alla campagna #BringBackOurGirls. Ma queste ragazze rappresentano solo una piccola frazione delle persone, donne, ragazze, giovani uomini e ragazzi, rapite da Boko Haram.

Gruppo di donne appena liberate dall'esercito nigeriano
Le donne e le ragazze rapite da Boko Haram venivano portate direttamente in campi situati in comunità remote o in campi di transito improvvisati, come quello allestito nella prigione di Ngoshe. In seguito venivano trasferite in varie case, in città o villaggi sotto il controllo di Boko Haram, per essere indottrinate alla versione dell’Islam di Boko Haram, in attesa del matrimonio.

Aisha, 19 anni, ha raccontato ad Amnesty International di esser stata rapita nel settembre 2014 durante la festa di matrimonio di un’amica insieme a sua sorella, la sposa e la sorella di quest’ultima. Boko Haram le ha portate in un accampamento a Gullak, nello stato di Adamawa, dove si trovavano circa altre 100 ragazze rapite. Una settimana più tardi la sposa e sua sorella son state costrette a sposare degli uomini di Boko Haram. Aisha e le altre donne e ragazze invece sono state addestrate per il combattimento.

"Ci insegnavano come sparare. Ero tra le ragazze addestrate a sparare. Mi hanno pure insegnato a usare le bombe e come attaccare un villaggio. L’addestramento è durato tre settimane. Poi hanno iniziato a farci partecipare a delle operazioni. Io sono stata mandata a seguire un’operazione nel mio stesso villaggio"

Aisha ha raccontato che durante i tre mesi in cui è rimasta prigioniera è stata ripetutamente stuprata, anche da gruppi di sei soldati alla volta. Inoltre ha assistito all'uccisione di oltre 50 persone, tra le quali sua sorella. "C’erano persone che rifiutavano di convertirsi. Altre si rifiutavano di imparare a uccidere. Venivano sepolti in fosse comuni, nella boscaglia. Impacchettavano i cadaveri e li gettavano in un grande buco, non abbastanza profondo. Non ho visto il buco. Però sentivamo la puzza quando i cadaveri iniziavano a decomporsi"

Uccisioni di massa. Sono almeno 300 i raid e gli attacchi di Boko Haram contro le popolazione civili che Amnesty International ha documentato da inizio 2014. All'inizio dei raid venivano presi di mira sistematicamente i militari o la polizia, così da confiscare armi e munizioni prima di assalire la popolazione civile. Gli uomini di Boko Haram sparavano a chiunque tentasse di fuggire, radunando e uccidendo uomini in età per combattere.

Il 14 dicembre 2014 quando Boko Haram ha preso il controllo di Madagali, Ahmed e Alhaji, rispettivamente 20 e 18 anni, erano seduti insieme ad altri uomini mentre aspettavano di essere sgozzati. Ahmed ha raccontato a Amnesty International che anche se l’istinto gli diceva di scappare non riusciva a farlo. "Li stavano macellando con i coltelli. Due uomini erano incaricati delle uccisioni. Eravamo tutti seduti per terra, in attesa del proprio turno". Alhaji è riuscito a sfuggire solo perché la lama del coltello del boia di Boko Haram era troppo spuntata per poter tagliare altre gole. "Prima di arrivare al mio gruppo hanno ucciso 27 persone davanti ai miei occhi. Li ho contati tutti perché volevo sapere quando sarebbe stato il mio turno" Ha raccontato che, quel giorno a Madagali, almeno 100 uomini che hanno rifiutato di unirsi a Boko Haram sono stati uccisi.

A Gwoza, durante un attacco avvenuto il 6 agosto 2014, Boko Haram ha ucciso almeno 600 persone. Testimoni hanno raccontato a Amnesty International come chiunque tentasse di scappare venisse rincorso. "Le moto andavano in tutte le direzioni, percorrevano ogni angolo di strada e sparavano. Sparavano solo agli uomini"

Centinaia di persone sono scappate cercando rifugio sulle montagne circostanti, dove i combattenti di Boko Haram davano loro la caccia, costringendole con il lancio di gas lacrimogeni a lasciare le caverne nelle quali si nascondevano. Le donne venivano rapite, gli uomini uccisi.

Incendi e saccheggi. Nuove immagini satellitari della distruzione di Bama. Immagini satellitari commissionate da Amnesty International hanno permesso all'organizzazione di documentare l’estensione della devastazione causata da Boko Haram.

Tra queste nuove immagini di Bama, prima e dopo, elaborate per il rapporto. Queste mostrano come almeno 5.900 strutture (tra le quali l’ospedale), ovvero circa il 70 % della città, sono state danneggiate o distrutte dai combattenti di Boko Haram in ritirata quando l’esercito nigeriano ha ripreso il controllo della città, nel marzo 2015.

Testimoni intervistati da Amnesty International hanno descritto come le strade di Bama fossero ricoperte di cadaveri e persone venissero arse vive negli edifici. Una donna ha raccontato che "I militari si sono avvicinati alla caserma (a Bama), ne hanno quasi preso il controllo ma poi si sono ritirati. Allora gli insorti hanno iniziato a uccidere e a incendiare le case"

La vita sotto Boko Haram. Il rapporto documenta il regno del terrore per le persone costrette a vivere sotto il controllo di Boko Haram. Dopo aver preso il controllo della città, Boko Haram radunava la popolazione per annunciare nuove regole, in particolare le limitazione dei movimenti per le donne. La maggior parte delle famiglie diventavano quindi dipendenti dai bambini per andare a prendere cibo o da visite da parte di membri di Boko Haram che offrivano aiuto, distribuendo cibo confiscato.

Per far rispettare le regole Boko Haram prevedeva dure punizioni. Non presentarsi alle preghiere quotidiane era punibile con la flagellazione pubblica. Una donna che ha vissuto cinque mesi sotto il controllo di Boko Haram a Gambaru ha detto ad Amnesty International di aver visto una donna venir flagellata 30 volte per aver venduto abiti per bambini e una coppia messa a morte pubblicamente per adulterio.

Un quindicenne di Bama, risparmiato da Boko Haram perché disabile, ha raccontato a Amnesty International di aver assistito a 10 lapidazioni. "Il venerdì era il giorno delle lapidazioni delle donne considerate adultere. Radunavano tutti i bambini e chiedevano loro di lapidarle. Ho partecipato alle lapidazioni. Scavavano un fosso, seppellivano tutto il corpo della donna lasciando fuori solo la testa e si lanciavano pietre. Quando la persona moriva lasciavano i sassi fino a quando il corpo si decomponeva"

Il rapporto evidenzia pure l'aumento delle tensioni tra cristiani e musulmani. Molti cristiani intervistati da Amnesty International credono che i musulmani abbiano informato Boko Haram dei loro spostamenti o che non li abbiano informati di attacchi imminenti. Questa situazione crea un clima di sfiducia tra comunità che prima vivevano in armonia, una accanto all'altra. Boko Haram ha distrutto chiese e ucciso cristiani che hanno rifiutato di convertirsi all'Islam ma sono stati presi di mira anche musulmani moderati.

"Il cambio di governo in Nigeria dello scorso anno rappresenta un’opportunità per un nuovo approccio alla sicurezza nel paese, dopo il terribile fallimento degli scorsi anni. Bisogna soccorrere le persone rapite, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità devono essere investigati. È necessario riesumare i corpi dalle fosse comuni, altre uccisioni devono essere prevenute e i colpevoli di queste immani sofferenze devono essere portati davanti alla giustizia"

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Le informazioni sulle attività di Boko Haram documentate da Amnesty International dovrebbero essere considerate dalla Corte penale internazionale del'Aia come parte dell’esame preliminare sulla situazione nella Nigeria nord-occidentale

Informazioni supplementari. Il rapporto si basa su 377 interviste, tra le quali 189 con vittime e testimoni oculari di attacchi di Boko Haram, 22 con funzionari locali, 22 con fonti militari e 102 con difensori dei diritti umani. Le testimonianze raccolte sono di donne, uomini e bambini, musulmani e cristiani. La maggior parte delle persone intervistate hanno chiesto di non essere identificate per ragioni di sicurezza, quindi tutti i nomi usati nel rapporto sono pseudonimi.

Le prove sono state raccolte da Amnesty International nel corso di quattro missioni di ricerca, nel 2014 e nel 2015, a Maiduguri, in campi per gli sfollati interno nella Nigeria nord-orientale e in un campo rifugiati nel nord del Camerun. Molte interviste sono state condotte telefonicamente da Londra.

Amnesty International ha documentato 38 casi di rapimento da parte di Boko Haram, ha raccolto 77 testimonianze sui rapimenti: 31 da parte di testimoni oculari e con 28 donne e ragazze rapite da Boko Haram e poi fuggite.

"Our job is to shoot, slaughter and kill. Boko Haram’s reign of terror"
(Il nostro lavoro è sparare, massacrare e uccidere. Il regno del terrore di Boko Haram)

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Articolo a cura di
Maris Davis




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