25 novembre 2015

Ecco perché nell'Islam la donna è considerata un essere inferiore (all'uomo)

Mentre una parte di mondo ricorda la "Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne", per un'altra parte di mondo questa ricorrenza è assolutamente senza senso.

Un approccio corretto alla conoscenza della antropologia culturale di popolazioni diverse da quelle occidentali, deve necessariamente fare riferimento alla religione di quelle popolazioni. La dimensione religiosa è certamente quella più importante e più pervasiva presso tutti i popoli, per l'Islam è la religione che regolamenta anche la vita civile, il diritto civile e penale, la politica.

La concezione occidentale dei diritti universali dell'uomo, come deliberati dall'ONU, non trova riscontro nelle legislazioni dei paesi musulmani. Tanto meno in quelli che hanno portato al potere i partiti di ispirazione fondamentalista, rigidamente ancorati alla legislazione di derivazione coranica (vedi Arabia Saudita e Iran per esempio).

La considerazione di Maometto per le donne così come viene dedotta dagli "hadith" (editti) del profeta. Hadith 3826, il Profeta disse: "Non è vero che la testimonianza di una donna equivalga alla metà di quella di un uomo?". La donna rispose: "". Lui disse: "Il perché sta nella scarsezza di cervello della donna". È quindi Maometto stesso a considerare le donne "scarse di cervello".

L'affermazione sull'inferiorità della donna rispetto all'uomo ha conseguenze importanti per la vita di tutti i giorniNon ci si riferisce qui alle disuguaglianze che possono esistere a livello sociologico tra uomo e donna, queste sono purtroppo diffuse in tutte le società, nel mondo musulmano come in altre culture o civiltà. Qui si sta parlando proprio della disuguaglianza giuridica, che ha delle conseguenze durature perché è "legge", e impedisce o comunque ritarda qualunque adeguamento alla mentalità dei musulmani e delle musulmane di oggi.

La donna ha solo il ruolo di oggetto di piacere e di riproduzione. C'è anzitutto una disparità nella possibilità di contrarre il matrimonio. All'uomo viene riconosciuta la possibilità di avere contemporaneamente fino a quattro mogli (poligamia), mentre alla donna viene negata la facoltà di sposare più di un uomo (poliandria). La poligamia legalmente sancita significa una differenza radicale tra uomo e donna. All'uomo dà la sensazione che la donna è fatta per il suo piacere e, al limite, che è una sua proprietà che può "arare" come vuole, come afferma letteralmente il Corano.

"Non accostatevi alle vostre spose durante i mestrui e non avvicinatele prima che si siano purificate. Quando poi si saranno purificate, avvicinatele nel modo che Allah vi ha comandato. In verità Allah ama coloro che si pentono e coloro che si purificano. Le vostre spose per voi sono come un campo, avvicinatevi a loro come un aratro" (Sura della Vacca II, 222-223).

Se l'uomo ha la possibilità materiale "acquista" un'altra moglie. La donna si trova in una condizione di sottomissione nel ruolo di oggetto di piacere e di riproduzione. Questo ruolo è confermato dal fatto che non viene mai chiamata con il suo nome, ma sempre in relazione a un uomo: figlia di, moglie di, sorella di..

I figli nati da un mussulmano sono automaticamente mussulmani, la religione della moglie non conta. La donna musulmana non può sposare un uomo di un'altra fede, a meno che questi non si converta prima all'Islam. Il divieto è dovuto al fatto che, nelle società patriarcali orientali, i figli adottano sempre la religione del padre. Ma è anche giustificato dal fatto che il padre è il garante dell'educazione religiosa dei figli, e quindi solo se è musulmano può assicurare la loro crescita secondo i principi islamici.

I figli nati da un musulmano sono considerati a tutti gli effetti musulmani, anche se battezzati. Perciò ogni matrimonio misto (tra un musulmano e una cristiana o un'ebrea, gli unici due casi contemplati nella sharia) accresce numericamente la comunità musulmana e riduce la comunità non musulmana. Una conseguenza tragica per le conseguenze delle mogli cristiane sposate a un musulmano.

I fatti di cronaca sono lì a dimostrare quanta leggerezza, e ignoranza, ci sia da parte delle donne occidentali nel contrarre matrimonio con uomini di fede islamica, ma anche da parte della Chiesa cattolica nel concedere la dispensa per questi matrimoni misti.

L'uomo può ripudiare la moglie quando e come vuole, la donna non può. Il marito ha la facoltà di ripudiare la moglie ripetendo tre volte la frase "sei ripudiata" in presenza di due testimoni musulmani maschi, adulti e sani di mente, anche senza ricorrere a un tribunale. La cosa più assurda è che se il marito dovesse in seguito pentirsi della sua decisione e intendesse "recuperare" nuovamente sua moglie, quest'ultima dovrebbe prima sposarsi con un altro uomo che dovrà a sua volta ripudiarla. La donna passa in tal caso di mano in mano per rispettare formalmente la "Legge".

La moglie invece non può ripudiare il marito. Potrebbe chiedere il divorzio, che però diviene per lei motivo di riprovazione e la mette in una condizione sociologica molto fragile. Il ripudio è comunque vissuto come un'umiliazione per la donna e si presume sempre che lei abbia qualche problema a livello fisico o morale.

Infine, la facilità con la quale il marito può ripudiare la moglie senza dover giustificare la decisione, la rende totalmente dipendente dal suo stato d'animo, con il costante timore di essere allontanata. È come una "spada di damocle" che pende sulla testa della donna. Se non si comporta secondo il desiderio del marito potrebbe essere ripudiata, e allora dovrà cercarne un altro che accetti di prenderla con sé.

Divorzio facile senza tribunale. C'è poi da considerare la facilità con cui si ottiene il divorzio, che avviene quasi sempre su richiesta dell'uomo. Tradizionalmente, non c'è neppure bisogno di andare in tribunale. Anche se è vero che un "hadith" (editto) di Maometto dice che "il divorzio è la più odiosa delle cose lecite", ma comunque è permesso.

I figli sono considerati di proprietà del padre, anche in caso di divorzio. L'affidamento della prole, in seguito al divorzio, è un altro esempio di disuguaglianza. I figli "appartengono" al padre, che decide della loro educazione, anche se sono provvisoriamente affidati alla madre fino all'età di sette anni. Solo il padre ha la potestà genitoriale.

Anche nell'eredità la donna è considerata inferiore. Alla femmina ne spetta la metà del maschio, un provvedimento che trova fondamento nella situazione socio-economica in cui la famiglia viveva anticamente: dato che, secondo il Corano, è l'uomo che ha l'obbligo di mantenere la donna e l'intera famiglia, era logico che dovesse disporre di un piccolo fondo a cui attingere. Anche in questo caso una disuguaglianza fissata dalla legge divina aumenta la dipendenza della donna dall'uomo.

La testimonianza di un uomo vale come quella di due donne. Un'altra grande differenza a livello giuridico è che la testimonianza del maschio vale come quella di due femmine. Questo si basa su un hadith (editto) di Maometto, molto diffuso negli ambienti musulmani nonostante la sua autenticità sia piuttosto discussa, in cui si afferma che "la donna è imperfetta nella fede e nell'intelligenza"

Quando si chiede ai fuqih, gli esperti della legge, di spiegare il motivo rispondono che la donna è imperfetta quanto alla fede perché, in certe situazioni, ad esempio durante le mestruazioni, la sua preghiera e il suo digiuno non sono validi e la sua pratica religiosa è dunque imperfetta.

Riguardo la seconda parte dell'affermazione sull'imperfezione nell'intelligenza, forse un tempo questo poteva essere spiegato sociologicamente tenendo presente che le donne studiavano meno, che erano meno coinvolte nella vita sociale e dedite soltanto ai lavori domestici, ma da tempo tutto ciò non vale più. Eppure nella maggioranza dei tribunali dei Paesi islamici vige ancora questo principio nonostante le proteste delle associazioni femministe. In alcuni Paesi i fondamentalisti chiedono anche che alle donne sia vietato di fare da testimoni nei processi in cui sono previste le pene coraniche.

Il Corano prevede esplicitamente che le mogli non ubbidienti vadano picchiate. Si potrebbe obiettare che ci sono anche cristiani che picchiano la moglie, ma il paragone non regge. Infatti il Nuovo Testamento prevede che non si possa mai picchiare la moglie. La lettera di San Paolo Apostolo agli Efesini (Ef 5,25.28) nei rapporti tra moglie e marito afferma: "E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso"

Dunque il cristiano che picchia la moglie è un cattivo cristiano, mentre un musulmano che picchia la moglie è un buon musulmano. Anzi il musulmano che non picchiasse la moglie ribelle sarebbe un cattivo musulmano che non applica il Corano "Allah ha onorato le donne istituendo la punizione delle bastonate, che però vanno date secondo regole precise: senza lasciar segni visibili e solo per una buona causa" (ad esempio se lei si nega a letto).

"Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono (per esse) i loro beni. Le (donne) virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse" (Sura 4:34)

Tunisia. Quanto sia difficile nel mondo islamico per le donne essere considerate "uguali" agli uomini lo dimostra la Tunisia che ha appena approvato (nel 2014) la costituzione più liberale del mondo islamico, ma dove Amnesty International ha proprio oggi denunciato che le donne che subiscono violenza sono scoraggiate dal chiedere "giustizia" - leggi -

Le donne e le ragazze tunisine vivono in una società che preferisce preservare l’onore familiare piuttosto che chiedere giustizia. Le donne, soprattutto coloro che hanno subito aggressioni sessuali o violenza in famiglia, sono scoraggiate dal presentare denuncia e indotte a credere che, in caso contrario, getteranno vergogna sulla famiglia. La polizia spesso ignora o persino fa sentire in colpa chi osa denunciare e talvolta si attribuisce un ruolo di mediazione, anche nei casi più gravi di violenza. Queste attitudini sociali e le manchevolezze dello stato sono particolarmente gravi in un paese dove la violenza sessuale e quella di genere sono radicate. Molte donne tunisine si sentono intrappolate in un ciclo di violenza che spesso chiama in causa i loro mariti.

E questo accade in un paese islamico come la Tunisia, che lo stesso occidente considera l'unico in cui la "primavera araba del 2012" ha avuto successo. Il paese a cui nel 2015 è stato riconosciuto il "Premio Nobel per Pace" proprio per questo processo di democratizzazione. Un paese che però deve fare ancora molta strada sulla via della parità uomo-donna.

Se da un lato Amnesty International denuncia la Tunisia perché fa ancora troppo poco con gli uomini che usano violenza contro le donne, dall'altro l'integralismo islamico prende di mira quella stessa Tunisia con attentati perché lo considera un paese troppo "democratico".

Difficile, quasi impossibile, scardinare la differenza tra uomo e donna nel mondo arabo quando questa differenza è "scritta" e "sancita" nel libro della legge islamica, ovvero il Corano.

Sposa bambina
Matrimoni combinati
Spose bambine
Mutilazioni genitali femminili
Poligamia
Donne schiave (perché non mussulmane)
Donne lapidate (perché considerate adultere)
(Anche questo è l'Islam)



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19 novembre 2015

Mafia Nigeriana e Cosa Nostra, in Sicilia è un patto di sangue

Mafia nigeriana, il patto con "Cosa Nostra", agguati con l’ascia, riti woodoo e sangue bevuto. A Palermo prima inchiesta sulla "Cosa Nera".

Nel regno che fu di Riina e Provenzano, contestato per la prima volta l'aggravante mafiosa a un'organizzazione straniera. Il gruppo Black Axe (affiliazione alla Mafia Nigeriana) controlla spaccio e prostituzione a Palermo, con il beneplacito dei boss locali. L'indagine partita da un regolamento di conti a colpi di scure e machete. I simboli e i riti di affiliazioni emersi anche in precedenti processi a Brescia e Torino.

Non è la storia di una famiglia di Cosa nostra, fatta di "soldati" e capi-bastone, boss latitanti e pentiti, sicari e sentinelle dello spaccio. Non è la storia di una gang di camorristi in trasferta, che ha attraversato il Sud Italia per mettere a posto gli affari in terra di Sicilia e rinsaldare alleanze con la "cupola".

Non c’entra nulla nemmeno con gli "scappati", le famiglie massacrate dalla seconda guerra di mafia negli anni ’80, fuggite negli Stati Uniti e da lì ricomparse in Sicilia negli anni duemila. Eppure l’ultima inchiesta della procura di Palermo ha comunque svelato l’esistenza di un’associazione criminale di stampo mafioso, con capi e gregari, riti d’iniziazione e affari, metodi di convincimento violenti, protetta dalla più arcaica forma d’immunità: l’omertà. Solo che con la mafia di Riina e Provenzano, delle stragi e del business dell’eroina, ha poco a che fare. Si tratta della "Mafia Nigeriana".

Dopo un secolo e mezzo di storia criminale legata a "Cosa Nostra", in Sicilia, c’è infatti una nuova mafia, che ha messo radici a Palermo, tessendo alleanze e dettando legge tra i vicoli del centro storico. Qui i nuovi boss vengono da lontano, non parlano il siciliano, e la loro organizzazione ha un nome e una storia consolidate in un altro continente: la chiamano Black Axe, l’ascia nera, ed è nata negli anni ’70 all'Università di Benin City, in Nigeria, come una confraternita di studenti.

All'inizio è una gang a metà tra un’associazione religiosa (li chiamano culti) e una banda criminale, che stabilisce riti d’iniziazione e impone ai suoi affiliati di portare un copricapo, un basco con un teschio e due ossa incrociate, come il simbolo dei corsari. Da qualche anno, però, i tentacoli di questa nuova piovra criminale sono arrivati anche in Italia, dove i boss nigeriani hanno iniziato a dettare legge nei sobborghi di città come Brescia e Torino: droga, spaccio, gestione delle prostitute nigeriane e un regime di terrore molto simile a quello che è il marchio di fabbrica delle mafie di casa nostra.

"Vorrei attirare la vostra attenzione sulla nuova attività criminale di un gruppo di nigeriani appartenente a sette segrete, proibite dal governo a causa di violenti atti di teppismo: purtroppo gli ex membri di queste sette che sono riusciti ad entrare in Italia hanno fondato nuovamente l’organizzazione qui, principalmente con scopi criminali", si legge in un’informativa dell’ambasciata nigeriana a Roma del 2011. E adesso, per la prima volta, i PM di Palermo hanno contestato l’aggravante mafioso ai boss nigeriani.

Palermo, la culla della Mafia Nigeriana in Italia .. "Le due vittime vengono marchiate con un taglio profondo, eseguito probabilmente con un machete, che gli sfregia la parte superiore del volto".

Gli investigatori palermitani iniziano ad accorgersi che sotto il monte Pellegrino c’è una nuova pericolosissima gang mafiosa il 27 gennaio del 2014, quella notte in via del Bosco, quartiere Ballarò di Palermo e uno dei mercati storici della città, due cittadini nigeriani vengono aggrediti a pugni, calci, e chirurgici colpi di ascia da sei connazionali. Quella che gli agenti della squadra mobile scorgono nell'oscurità è un scena raccapricciante, alla fine della spedizione punitiva, infatti, le due vittime vengono marchiate con un taglio profondo, eseguito probabilmente con un machete, che sfregia la parte superiore del volto.

Le indagini s'indirizzano subito su tre cittadini originari della Nigeria che vivono tra i vicoli di Ballarò. "Li abbiamo picchiati perché hanno molestato la mia donna" dice il capo dei tre, una scusa utilizzata spesso anche in altre città italiane per giustificare le risse tra nigeriani.

Quello di Ballarò è stato solo un regolamento di conti tra connazionali? I PM Gaspare Spedale e Sergio Demontis, però, non ci credono: e scoprono che Austine Ewosa, detto Johnbull, non è solo il capo del trio, ma probabilmente è anche uno dei boss della Black Axe a Palermo e il quartiere Ballarò è il suo regno, ed è tra quei vicoli che Johnbull e i suoi gestiscono lo spaccio di droga, minacciando e massacrando tutti quelli che vogliono piazzare la "roba" senza sottomettersi alla banda, o "gestiscono" giovani ragazze nigeriane da avviare alla prostituzione senza senza il loro consenso.

I nigeriani sono rispettosi dei patti con "Cosa Nostra" .. Il boss siciliano in carcere viene informato "Mi vengono ad aspettare sotto casa per parlare, chiedere, sono rispettosi".

Ma non solo. Gli inquirenti si pongono una domanda, come è possibile che a Palermo un’organizzazione straniera gestisca un intero quartiere senza che i padrini, quelli che reggono gli storici mandamenti cittadini, abbiano nulla da ridire? Giovanni Di Giacomo è un boss autorevole, un mafioso dal robusto curriculum criminale, ha esordito come nel gruppo di fuoco di Pippo Calò.

Oggi è detenuto all'ergastolo. Fuori dal carcere mantiene, però, ancora la sua influenza, al punto che riesce a fare nominare il fratello Giuseppe reggente del clan di Porta Nuova. Un incarico che durerà poco, dato che il 12 marzo del 2014 Giuseppe Di Giacomo verrà ucciso in pieno giorno nelle strade del quartiere Zisa. Aveva però già cominciato a muoversi da padrino, a dirigere il racket delle estorsioni, e a riferire ogni cosa al fratello detenuto, durante i colloqui intercettati in carcere.

In uno di quei colloqui, Giovanni Di Giacomo chiede informazioni su Ballarò, il quartiere storico nel centro della città. "Lì ci sono i turchi" dice il fratello, e a Palermo da più di mezzo secolo quando qualcuno dice "i turchi", si riferisce genericamente alle persone di colore. È per questo che Di Giacomo chiede delucidazioni, "Quali turchi?", "I nigeriani" chiarisce il boss di Porta Nuova. "Ma sono rispettosi mi vengono ad aspettare sotto casa per parlare, chiedere, e poi questi immagazzinano".

Una affermazione che, per gli inquirenti, spiega chiaramente come Cosa nostra a Palermo abbia dato il suo via libera alla presenza dei nigeriani di Black Axe sul territorio. E quella spiegazione, "questi immagazzinano", vuol dire praticamente che nei vicoli dimenticati di Ballarò i nigeriani "rispettosi" smerciano enormi quantitativi di droga e hanno basi logistiche per gestire anche il business della prostituzione a Palermo, con il beneplacito delle famiglie di Cosa nostra, ormai falcidiate dagli arresti e a corto di soldati fedeli per controllare ogni angolo della città.

È così che il ventre molle di Palermo è diventato oggi mandamento delle gang nigeriane, con tanto di benedizione degli eredi di Totò Riina e Pippo Calò. Ed è per questo motivo che i PM della procura hanno deciso di contestare alla banda di Johnbull il tentato omicidio e lo spaccio di droga aggravati dalle modalità mafiose, ed inoltre la riduzione in schiavitù e sfruttamento della prostituzione.

Il Boss Nero che sta a Catania .. "È questo che fa Ugiagbe, gestire lo spaccio di droga e dirimere questioni spinose con le altre mafie straniere in Italia"

E mentre molto presto il tribunale di Palermo processerà per la prima volta un gruppo di nigeriani contestandogli di aver agito con le stesse modalità della mafia, è da quasi tre anni che gli agenti segreti dell’AISI, l’agenzia per la sicurezza interna, compilano informative su Gabriel Ugiagbe, nigeriano di 33 anni, boss di primo livello di Eiye, un’altra importante organizzazione criminale interna alla Mafia Nigeriana, che ha spesso scatenato faide contro gli uomini della Black Axe, salvo poi tornare a promuovere alleanze in nome di un solo obiettivo, gli affari.

È questo che fa Ugiagbe, gestire lo spaccio di droga e dirimere questioni spinose sorte tra la sua organizzazione e le altre mafie straniere in Italia. Ed è così che Ugiagbe è diventato un boss autorevole tra le cosche di mezza Europa. Dal suo residence a Catania, nel quartiere Librino, dove fu localizzato già nel 2013, si sposta in continuazione all'estero, in Austria e Spagna, ma anche nel nord Italia, terreno di conquista per le mafie nigeriane già da diversi anni.

Bere sangue umano fa parte del rito di affiliazione .. "L’affiliazione alla famiglia mafiosa nigeriana prevede un rito particolare, bere sangue umano recitando strane invocazioni woodoo"

Rito di affiliazione di una ragazza
davanti al "Boss" e alla "mamam"
Prima dell’indagine dei PM palermitani, prima delle informative dei servizi sul boss di stanza a Catania, prima delle note dell’ambasciata di Lagos, due tribunali italiani avevano emesso sentenze di condanna per associazione mafiosa contro bande nigeriane, sempre le stesse, Black Axe e Eiye.

Nel 2009 a Brescia vengono condannati per il 416 bis (associazione di tipo mafioso), con pene dai 5 ai 7 anni, dodici persone, la "cupola" della mafia nigeriana nella città lombarda, guidata in città da Frank Edomwonyi.

"Si avvalevano della forza di intimidazione del vincolo associativo, nonché della condizione di assoggettamento e di omertà che si sostanziava nell'osservanza delle rigorose regole interne, di rispetto ed obbedienza alle direttive dei vertici con previsione di sanzioni anche corporali in caso di inosservanza, nella pretesa dagli affiliati del versamento, obbligatorio e periodico, di somme di denaro prestabilite per le finalità del gruppo locale e per le finalità della casa madre nigeriana”, così scrive nel suo atto d’accusa il PM antimafia Paolo Savio, che nella sua inchiesta scopre anche come l’affiliazione alla famiglia mafiosa prevedesse un rito particolare, bere sangue umano recitando strane invocazioni.

Più o meno come l’arcaica forma di affiliazione a "Cosa Nostra", che prevedeva un taglio sul dito per farlo sanguinare, e un giuramento pronunciato mentre un’immagine sacra veniva fatta bruciare insieme a quel sangue.

Anche a Torino, la mafia nigeriana ha messo radici da anni, già nel 2010 sono stati condannati per associazione mafiosa 36 imputati, appartenenti ai clan Black Axe e Eiye, con pene dai 4 ai 14 anni di carcere. Nel capoluogo piemontese, infatti, gli Eiye e i Black Axe entrano in rotta di collisione già nel 2003.

Scoppia una guerra, combattuta per le strade della città con coltelli, machete e asce, che fa feriti su feriti e attira l’attenzione degli investigatori. Sembrava un caso isolato, una guerra tra bande che si fermava solo alle periferie torinesi, e invece adesso la mafia made in Nigeria è arrivata a mettere radici anche a Palermo, la stessa città che ha visto suo malgrado la nascita della Piovra.
(da un'inchiesta di Giuseppe Pipitone, giornalista siciliano)



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13 novembre 2015

Nigeria. Venti anni fa uccisero Ken Saro-Wiwa, il giusto che voleva difendere il Delta del Niger

Ken Saro Wiwa
Vent’anni fa veniva impiccato Ken Saro Wiwa. Era stato condannato a morte per "istigazione all'omicidio" un'accusa del tutto inventata (come fu poi ampiamente dimostrato). L’esecuzione avvenne nella prigione di Port Harcourt, nel Delta del Niger. La sua colpa era quella di avere contestato lo sfruttamento incondizionato del petrolio della sua terra.

Ken Saro Wiwa morì da difensore dei diritti umani e del diritto di un popolo di poter godere delle proprie ricchezze. Ma Ken Saro Wiwa era molto di più di un militante e molto più di un politico. Era uno scrittore, un drammaturgo, un poeta, un produttore televisivo e tatrale. Era un grande personaggio che iniziava a dare fastidio agli enormi interessi economici delle multinazionali che stavano (e stanno ancora) operando nella ricchissima regione petrolifera della Nigeria.

Era nato nel 1941, il 10 ottobre, a Bori, un piccolo centro nel delta del Niger e fu impiccato il 10 novembre del 1995. L’accusa di "istigazione all'omicidio" era totalmente costruita. Dietro c’era solo la volontà di eliminare una voce scomoda in modo esemplare da parte di una delle tante ottuse e feroci giunte militari della Nigeria. C’è poi stato l'assordante e colpevole silenzio delle cancellerie di tutto il mondo e soprattutto delle compagnie petrolifere, in primo luogo la Shell, che avevano e hanno interessi enormi nel Delta del Niger.

Quel giorno, insieme ad altri otto dissidenti, Saro Wiwa venne portato in catene nella prigione nella città di Port Harcourt, nel Sud della Nigeria. Lì furono tutti impiccati alle sette e mezzo di mattina di quel 10 novembre. Le indagini condotte dalle Nazioni Unite hanno provato che il processo che ha portato alla morte di Saro Wiwa è stato ingiusto. L'allora premier britannico John Major aveva definito le esecuzioni un "omicidio giudiziario".

La colpa di Ken Saro Wiwa era la sua opposizione allo sfruttamento incondizionato del petrolio della sua terra. Più che sfruttamento si dovrebbe dire saccheggio perché di quella ricchezza non è mai rimasto nulla ai popoli del Delta del Niger che continuano ad essere i più poveri di tutta la Nigeria. Quel petrolio che dà energia al mondo intero ma non riesce a dare luce elettrica, sanità, fogne, acqua potabile agli abitanti del delta. Anzi, qualcosa è rimasto, un territorio che è tra i più inquinati di tutto il mondo.

L'inquinamento di terreni e acque
Il 90 per cento dei ricavi prodotti dalle esportazioni della Nigeria è costituito dalla vendita del petrolio all'estero. Questo ha portato, le giunte militari prima, e i governi adesso, ad opporsi strenuamente a tutte le denunce ambientaliste come quella di Saro Wiwa per continuare a "sostenere" le aziende petrolifere che operano nel Delta.

Ken Saro Wiwa era un Ogoni, una delle trentina di etnie che popolano il Delta. Le organizzazioni dei popoli del Delta del Niger oggi hanno deciso di continuare la sua lotta fondando il Movimento per l'Emancipazione del Delta del Niger (MEND) che ha come obiettivi principali la "cacciata" delle compagnie straniere e utilizzare delle risorse provenienti dal petrolio estratto per migliorare le condizioni di vita della popolazione locale.

La constatazione più triste, a vent'anni di distanza, è che i rischi denunciati dall'attivista si sono concretizzati. La popolazione locale è sempre più colpita da:
  • problemi di salute a causa del gas flaring (fuochi perenni). Disturbi come rossore agli occhi e malattie legate all'apparato respiratorio,
  • vive in condizioni di miseria,
  • è circondata da oleodotti e piattaforme petrolifere,
  • non può più pescare perché fiumi e acque sono inquinati,
  • non può più coltivare la terra perché i terreni sono invasi dal petrolio fuoriuscito dalle pipeline.
  • la speranza di vita è scesa a 40 anni,
  • il 75% della popolazione non ha accesso all'acqua potabile.
Come riportato dall'Osservatorio francese sulle multinazionali, infatti, "malgrado le promesse di bonificare le zone inquinate a causa delle attività di estrazione le compagnie, in particolare la Shell e l'ENI, continuano ad incassare profitti il cui costo sociale e ambientale è pagato dalla popolazione"

"Viviamo in un inferno di povertà. La crescita della vegetazione e degli animali è bloccata. E i pesci sono morti"

Pipeline scorrono per chilometri e chilometri
a cielo aperto senza nessuna manutenzione
Uno studio scientifico realizzato nel 2011, dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) tracciava un quadro nefasto. Per ripulire i danni causati dal petrolio ci vorrebbe una bonifica di trent'anni. La speranza di vita nella zona, inoltre, non supera ormai i 40 anni, e il 75 per cento della popolazione non ha accesso all'acqua potabile.

"Nel frattempo la Shell ha registrato profitti per 13 miliardi di euro nel 2014. In Nigeria gestisce cinquanta campi petroliferi e una rete di oleodotti, in molti casi vecchia e priva di adeguata manutenzione, lunga cinquemila chilometri. Le fughe di greggio registrate dal 2007 ad oggi sono 1.500 secondo la stessa compagnia anglo-olandese. Ma molte di più secondo Amnesty International"

Saro Wiwa sapeva che il futuro dei nigeriani sarebbe stato questo. Ebbe il coraggio di denunciare, a nome della minoranza Ogoni, popolazione particolarmente colpita dalle attività dei petrolieri. Organizzò proteste, chiese risarcimenti al governo. Fondò un movimento, il MOSOP, e riuscì ad organizzare manifestazioni popolari oceaniche. Fu arrestato una prima volta nel 1993, e poi liberato anche grazie alla pressione della comunità internazionale. Ma un anno più tardi finì di nuovo in manette, stavolta con l’accusa (inventata) di istigazione all'omicidio, per questo fu condannato a morte, e impiccato nella prigione dov'era detenuto.


Gas Flaring e i fuochi perenni
Shell. Accusata di aver spalleggiato l'allora regime nigeriano affinché Saro Wiwa fosse tolto di mezzo, la Shell accettò nel 2009 di versare 15,5 milioni di dollari a titolo di risarcimento, al fine di chiudere un processo intentato presso un tribunale di New York.

All'inizio di quest'anno, nell'ambito di un altro procedimento intentato nel Regno Unito, la compagnia ha accettato di pagare 55 milioni di sterline (70 milioni di euro) per risarcire i pescatori della regione di Bodo, colpiti da ripetute fughe di greggio nel 2008 e nel 2009. Ma mai nessuna cifra potrà risarcire fino in fondo la catastrofe ecologica in atto nella regione del Delta del Niger dove le multinazionali del petrolio continuano, a suon di tangenti, a "rubare" il petrolio nigeriano e ad operare "indisturbate".
I Love MEND

"Tutti noi siamo di fronte alla Storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosa povertà del mio popolo che vive su una terra molto generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenere che il mio popolo riconquisti il suo diritto alla vita e a una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materiali ed intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloro che credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino. Né la prigione né la morte potranno impedire la nostra vittoria finale"
(Ken Saro Wiwa)

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Petrolio, inquinamento e povertà nel Delta del Niger
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Delta del Nigerl'inquinamento che nessuno vuole vedere
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Gas Flaring nel Delta del Niger
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Il mio libretto "Niger Delta"
Delta del Niger



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12 novembre 2015

Karla Jacinto, una delle ventimila schiave sessuali messicane

Karla Jacinto, messicana, 23 anni
Karla Jacinto, messicana di 23 anni, vittima del traffico di esseri umani, racconta la sua storia alla CNN, "Sono stata violentata 43.200 volte"

Siamo in Messico, ma è una vicenda che assomiglia molto alla mia e a quella ti tante altre ragazze nigeriane, africane, europee e cinesi .. tutte accomunate dallo stesso incubo, la schiavitù sessuale. Una storia, quella di Karla, che ci ha commosso e quindi abbiamo voluto raccontarla.

"Iniziavo alle 10 di mattina e finivo a mezzanotte. Alcuni uomini ridevano di me perché piangevo. Dovevo chiudere gli occhi per non vedere ciò che mi veniva fatto, per non sentire".

Karla Jacinto è una ragazza messicana, ha 23 anni ed è una vittima della tratta di esseri umani, un vero e proprio dramma in Messico che coinvolge soprattutto le giovani povere, che vengono costrette a prostituirsi fin da bambine. In un'intervista rilasciata alla CNN, la Jacinto ha rivelato il numero di volte in cui crede di essere stata abusata, 43.200 ovvero per quattro anni, da circa trenta uomini al giorno, tutti i giorni. Un numero spaventoso, dipinto ancora nel volto terrorizzato della ragazza che ai giornalisti ha raccontato la sua storia.

Tutto è iniziato quando Karla aveva soli 12 anni, è stata portata via dalla sua città natale da un trafficante che l'ha illusa con regali, macchine e soldi. Poi l'ha spinta a seguirlo a Tenancingo, una città nota per essere uno snodo importante dove arrivano le vittime della tratta, e qui vengono obbligate a prostituirsi. Dopo essere rimasta per tre mesi lì, la Jacinto è stata portata a Guadalajara dove è iniziato il suo incubo di prostituta e vittima di violenze durato quattro anni consecutivi. Senza pause, senza giorni di vacanza.

Karla, vittima di schiavitù sessuale.
Tutto è iniziato quando ne aveva 12
Karla ha raccontato di essere stata vittima anche della gelosia del suo "padrone". Aveva paura che potesse innamorarsi di un suo cliente, così la picchiava, le strappava i capelli, la bruciava con il ferro da stiro.

A salvarla è stata un'operazione di polizia che ha portato alla libertà anche altre ragazze nella sua stessa condizione. La CNN ha verificato la storia raccontata dalla donna insieme allo United Against Human Trafficking Group (UAHT).

La sua testimonianza ora sarà utile per supportare la richiesta di una nuova legge per far sì che le autorità riescano a lottare più facilmente contro il traffico di esseri umani. Ogni anno in Messico sono 20mila le vittime di "Trafficking"
(Fonte: DailyMail online)






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11 novembre 2015

Le donne e la libertà di mostrare il seno

Molte donne in tutta Europa, a partire da quelle islandesi, hanno aderito (e stanno aderendo) alla campagna per l’uguaglianza di genere postando foto in cui mostrano il loro seno.

FreeTheNipple è una campagna per denunciare la disparità con cui le donne vengono trattate sui social network. Gli uomini sono liberi di togliersi la maglietta e fotografarsi, senza timore di vedere la loro foto cancellata dai social. Il seno scoperto delle donne, invece, rimane ancora un tabù.

Provengo da una cultura tradizionale, quella animista dell'Africa Sub-Sahariana (Nigeria del Sud) in cui il seno simboleggia la "maternità" ovvero la "fertilità", e mostrare il seno è assolutamente normale, le donne e le ragazze lo mostrano, spesso con orgoglio, sia nella vita privata di tutti i giorni, ma soprattutto nelle feste tradizionali.

Ammetto, tuttavia, che sempre in Africa nelle società a prevalenza islamica, le donne e le ragazze sono sempre assolutamente "coperte", almeno in pubblico.

Tutte le società hanno i loro tabù e ciò dipende dal retroterra storico e culturale e quasi ovunque in occidente il seno femminile è un tabù perché non viene rappresentato come il simbolo della fertilità femminile e della maternità, ma viene associato alla sfera sessuale, e quindi è una "cosa" da nascondere.

Dal mio punto di vista non è semplicemente una questione di simboli, maternità o sessualità, ma è anche una questione di discriminazione di genere. Perché i maschi possono mostrare il loro petto "villoso" mentre le donne creano scandalo se mostrano le loro "tette" ?? E per di più motivo di "reprimende" severe se poi il seno nudo femminile viene mostrato nei social network ??

Il movimento "FreeTheNipple" rivendica il diritto delle donne ad avere il controllo del proprio corpo. È nato da circa un anno, ma è diventato celebre quando Adda Þóreyjardóttir Smáradóttir, una ragazza islandese di diciassette anni ha pubblicato una foto del suo seno, per promuovere una campagna femminista a scuola.

A quel punto è stata derisa dagli altri ragazzi. Un suo compagno ha pubblicato una foto a petto nudo per prenderla in giro e lei ha risposto, a sua volta, postando su Twitter l'immagine del suo seno in segno di protesta.

A causa del gesto, la ragazza è divenuta bersaglio di commenti misogini (sentimenti di avversione e di odio verso le donne). Per sostenerla, molte altre donne islandesi l’hanno imitata, in un atto di ribellione contro l'accostamento del corpo femminile al sesso.

"Per me si tratta di mostrarsi nel modo in cui si vuole. È solo una parte del corpo. I ragazzi hanno seni e capezzoli e va bene che loro li mostrino. Lo stesso dovrebbe applicarsi alle donne perché anche loro hanno seni e capezzoli"

Le foto di adesione alla campagna, pubblicate su Instagram, Facebook e Twitter, sono diventate centinaia. Anche alcune cantanti e attrici hanno partecipato, e la campagna si sta allargando a tutta l'Europa.

Quasi due anni fa, quasi per scherzo, scrissi l'articolo "Alla mia danzatrice nuda", ispirato ad un canto della tradizione animista del popolo Igbo, in cui si esalta proprio il seno femminile in chiave di preghiera al divino "Sei il verbo dell'iniziato, idea del tutto ai piedi dell'albero guardiano". Ricordo che all'epoca ricevetti molti commenti, alcuni ironici, altri compiacenti, ma comunque solo in pochissimi avevano capito il "vero" simbolismo di ciò che rappresenta davvero il seno femminile nella cultura tradizionale africana.

La campagna FreeTheNipple non fa altro che dire tutto ciò che anch'io ho sempre sostenuto, e quindi aderisco pienamente pubblicando proprio qui le foto con il mio seno

"Libertà alle donne di mostrare il proprio seno ovunque, anche nei Social"



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Free the Nipple




Articolo di

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