30 dicembre 2013

Prostituzione. Vergogna al Cara di Mineo


Vergogna al "Cara di Mineo" (Catania) .. Scoperto un traffico di prostituzione. Complice anche il personale del consorzio che gestisce la struttura per conto dello Stato. Il medesimo che gestiva anche il centro di prima accoglienza di Lampedusa.

Gli stessi immigrati costringono le donne "rifugiate" nel centro a prostituirsi. Dentro e fuori, perché oltre che nelle stanze del villaggio, molte ragazze sono costrette ad attendere i clienti in strada, sulla Catania-Gela, a poche centinaia di metri dal centro.

Cinque euro le somale, dieci le eritree, tredici le nigeriane. Il tariffario della prostituzione gira di bocca in bocca al centro richiedenti asilo, al bar, in mensa, negli uffici. Insieme alla "classifica" delle ragazze, giovani, giovanissime, molte anche minorenni.

Lo sanno tutti, compresi mediatori culturali e la direzione, si girano dall'altra parte e fanno finta di non vedere. Al''interno del C.I.E. c'è un giro di prostituzione spaventoso e gli operatori del "Cara" sono i primi a beneficiarne in tutti i sensi.

Al Cara di Mineo ci sono circa 4.000 ospiti gestiti dal Consorzio "Terre di Accoglienza" (gli stessi di Lampedusa) e le ragazze, che per vari motivi sono costrette a restare tra quelle mura per mesi e mesi in attesa di un'istruttoria per la richiesta di asilo o per il riconoscimento di un documento per restare in Italia, vittime di un un "racket" maschilista interno alla struttura.

Ragazze giovani, già segnate dalla sofferenza personale, e ora anche schiave di "pervertiti" italiani e stranieri.

Le "ragazze" costrette a lavorare ad ogni ora, tutte le ore del giorno, obbligate da un organizzazione "mista" formata da migranti delle etnie più violente, Mali, Ghana e Nigeria (mafiosi di professione) e molti di quei 600 italiani che sono gli operatori del Centro.

È imbarazzante vedere padri di famiglia e studenti universitari chiedere una "prestazione" da queste ragazze che vengono "offerte" per pochi euro. È ancora più imbarazzante ascoltare i "rumori" in diretta attraverso le sottili pareti di cartongesso dei prefabbricati del Centro. È umiliante ascoltare al bar o in mensa le "imprese" di chi è appena andato con l'una o con l'altra ragazza, ragazzina, magari minorenne, anche di 15 o 16 anni.

Già lo scorso anno la procura di Caltagirone aveva aperto un'inchiesta su un giro di prostituzione al Cara di Mineo dove fu registrato un numero spropositato di aborti. Però la situazione non si è modificata, anzi, in questo ultimo periodo questo "orribile" mercato di donne sembra essersi moltiplicato.

Tra gli operatori del Centro (italiani) e anche tra i mediatori culturali sono sempre maggiori le richieste di prestazioni sessuali "gratuite" per chiudere un occhio o per procurare alle ragazze lavori all'esterno come "domestiche" o lavori a ore.

I posti di lavoro al Cara di Mineo ormai sono diventati merce di scambio della politica, operatori "raccomandati" che non hanno nessuna competenza e preparazione per assistere rifugiati o richiedenti asilo vengono assunti a tempo determinato solo per fare un favore a questo o quel "politico".

Prostituzione e non solo. Perché al "Villaggio degli Aranci" ci sarebbe anche chi lucra affittando stanze a migranti che non avrebbero diritto a starvi, o a chi ha già ricevuto lo status di rifugiato e non ha dove andare. Vige la legge del più forte .. Tra i richiedenti asilo c'è chi, con violenza, è in grado di dire ad un altro ospite "Questa stanza è mia e mi serve, vai a cercarti un altro posto dove dormire".


Cara di Mineo (CT)

SI, alla chiusura di tutti i Centri di Identificazione ed Espulsione in Italia.

Veri e propri lager gestiti da una politica corrotta e da mafiosi



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Aggiornamento del 31 dicembre 2013
A seguito della pubblicazione del presente articolo e di altri simili di denuncia, gli operatori del Cara di Mineo facenti parte al Consorzio "Calatino Terra d’accoglienza" hanno smentito un giro di prostituzione all'interno della struttura. Ricordiamo che il consorzio che gestisce il Cara di Mineo è lo stesso che gestiva il Centro di prima accoglienza di Lampedusa e poi coinvolto nello scandalo del Video reso pubblico da Rai2.
Il governo nella legge di stabilità ha appena stanziato per la gestione del Cara di Mineo tre milioni di euro
Dietro la gestione dei CIE, dei Cara, e dei CDA c'è un business fatto sulla pelle degli immigrati da parte di consorzi e società private, nella quale si innescano interessi della politica malata e delle mafie. La stessa Comunità di Sant'Egidio, che per prima ha denunciato la situazione al Cara di Mineo, ha smentito l'esistenza di un giro di prostituzione, smentita sospetta, che avviene proprio nel momento in cui vengono stanziati i fondi per la gestione di questi centri.
- Leggi la smentita -

Per quanto ci riguarda confermiamo per intero ciò che abbiamo scritto nel presente articolo, accuse confermate da più fonti. Denunciamo l'ottusa cecità della politica che continua a finanziare consorzi e ditte private sulla pelle e sul dolore di migliaia di immigrati, richiedenti asilo e rifugiati.
La chiusura dei CIE è urgente e necessaria, ma è fortemente frenata e avversata, non solo da forze politiche che da sempre sono contrarie alla loro chiusura, ma soprattutto da lobbies di potere che si arricchiscono sulla pelle dei "poveri".
(Maris)
- Guarda questo Comunicato su Facebook -

26 dicembre 2013

Se l'Europa baratta la sua identità cristiana

Questo Natale potrebbe essere l'ultimo in cui festeggiamo l'evento più importante del cristianesimo, che allestiamo il presepe e che facciamo l'albero con le luci. D'ora in poi, conformemente al "religiosamente corretto" prevalente nell'Unione Europea.

Già ufficializzato in Belgio, le feste natalizie sostituite con le "Vacanze d'Inverno", e quelle pasquali con le "Vacanze di Primavera" per non offendere quel 23% di popolazione islamica residente in quel paese europeo - leggi fonte -

Si rinuncia a simboli religiosi e alle tradizioni cristiane solo per un malcelato senso dell'integrazioneÈ un dato di fatto che in Italia i credenti sono solo una minoranza e ancor meno sono praticanti, nonostante il Papa. La maggioranza degli italiani si è distaccata non solo dalla Chiesa ma anche dalla fede, e potrebbe concepire positivamente l'abolizione delle festività cristiane, ormai diventate solo tappe da dedicare al consumismo e accettando quindi il relativismo religioso come parte integrante e necessità vitale per aderire al nuovo mondo globalizzato dove si immagina che la convivenza tra persone provenienti da paesi diversi, con lingue e fedi diverse, debba obbligatoriamente tradursi nell'azzeramento dei valori e delle regole fondanti della nostra civiltà, della nostra cultura cristiana, modellata da duemila anni di storia.

Per la verità furono gli insegnanti italiani di ispirazione sessantottina, ancor prima che esplodesse l'ideologia del globalismo, che si prodigarono a togliere i crocefissi dalle aule e a non far allestire i presepi o cantare gli inni natalizi nelle scuole, anticipando le richieste personali o le rivendicazioni religiose degli studenti o delle famiglie mussulmane "per non urtare la loro suscettibilità".

A questo punto dobbiamo attenderci che presto anche in Italia accada presto quello che è già successo in Francia e in Gran Bretagna, dove è ufficialmente proibito portare addosso il crocefisso nei luoghi pubblici perché l'esposizione di un simbolo religioso viene concepito in contrasto con la società della pluralità etnica, culturale e religiosa, ritenendo che l'Europa debba diventare "neutrale" rispetto all'identità religiosa, per non offendere nessuno e consentire a tutti di sentirsi pienamente "cittadini del mondo".

La sorpresa sarà quella di scoprire che l'Europa avrà gradualmente, ma inesorabilmente, abolito il Natale, l'Epifania e la Pasqua, che non allestisce il presepe e vieta l'esposizione del crocefisso, finendo magari per rimuoverlo anche all'esterno delle Chiese, e che anche l'Italia sarà diventata del tutto simile ai Paesi mussulmani più radicali che calpestano la libertà religiosa. È bene che si sappia che questi Paesi islamici non sono tolleranti con le "altre religioni" e che, al contrario, tutte le altre religioni devono essere estirpate, sono considerate eresie, nella certezza che l'Islam sia l'unica verità assoluta e pertanto deve affermarsi con la predicazione, e con la guerra ovunque nel mondo.

Già oggi stiamo assistendo al lento inarrestabile declino, abbandono e trasformazione delle chiese in moschee in varie parti d'Europa, che ha il primato del più basso tasso di natalità al mondo e immagina che l'apertura delle frontiere sia la soluzione per riequilibrare la bilancia demografica, con il risultato che Bruxelles, la capitale delle istituzioni europee, ha il 23% di popolazione mussulmana.

L'Occidente che odia se stesso. Quanta ragione aveva l'allora cardinale Ratzinger quando denunciò "l'Occidente che odia se stesso". Così come in passato non si è aspettato l'arrivo di studenti mussulmani per togliere i crocefissi dalle aule scolastiche, oggi abbiamo consentito che l'Europa sia diventata il quartier generale dell'estremismo e del terrorismo islamico globalizzato pur di rispettare, costi quel che costi, la dimensione formale della così detta integrazione.

Si pensi che:
  • su 11 mila terroristi islamici provenienti da 74 Stati che attualmente combattono in Siria con "Al Qaeda", ben 1.900 sono cittadini o residenti fissi dell'Unione Europea, di cui 50 provenienti dall'Italia (fonte: rapporto Centro internazionale per lo studio del radicalismo);
  • il 75% dei mussulmani in Europa è convinto che c'è un'unica interpretazione del Corano a cui tutti i mussulmani devono sottomettersi;
  • il 65% è convinto che la "Sharia", la legge coranica, debba prevalere sulle leggi degli Stati Europei in cui risiedono (indagine pubblicata sul Washington Post il 13 dicembre scorso).

Non dobbiamo rassegnarci, ma dobbiamo piuttosto combattere sia contro il nemico ideologico del relativismo, globalismo, immigrazionismo e multiculturalismo, sia contro il nemico reale dell'estremismo e del terrorismo islamico. Indipendentemente dal fatto che si sia cristiani, credenti o praticanti, dobbiamo essere consapevoli che non si può barattare la nostra millenaria civiltà cristiana per un "frainteso" senso dell'accoglienza e dell'integrazione.

Non è più possibile barattare diritti fondamentali conquistati in secoli di storia europea come la libertà, il diritto alla vita e alla dignità della persona per un "frainteso" senso dell'integrazione.

Non è più possibile confondere i ruoli .. l'immigrato che viene accolto in Europa deve rispettare regole, leggi e tradizioni del paese in cui è ospite, e non è il paese ospitante che si deve adeguare alle tradizioni dell'immigrato. La buona legge dell'ospitalità prevede che sia l'ospite ad adeguarsi al padrone di casa, e non deve essere il padrone di casa ad adeguarsi all'ospite.

Io stessa ho vissuto da immigrata sia in Italia che in Spagna e non ho mai preteso di scambiare le mie tradizioni originarie con quelle dei luoghi in cui ho vissuto, anzi, ho sempre ringraziato per quello che mi veniva dato, ho cercato di adeguarmi alla cultura e alle tradizioni prima quelle spagnole e poi quelle italiane. Ho imparato la lingua, mi sono adeguata alla cucina e ai modi di vivere .. ma non per questo ho perso la mia identità e le mie tradizioni originarie.

Al contrario c'è un Islam che afferma che solo lui è l'unica verità, c'è un Islam che uccide i cristiani, c'è un Islam che distrugge le chiese ma pretende la costruzione di moschee, c'è un'Islam che tratta la donna come una proprietà e non come un essere umano, c'è un'Islam che fa sposare le bambine e le rende schiave di uomini che possono essere i loro nonni, c'è un'Islam che pretende senza dare nulla in cambio .. e l'Europa ha il dovere e il diritto di difendere la propria identità culturale e storica.

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19 dicembre 2013

Nada, la sposa bambina che si ribella ai genitori.


Nada Al-Ahdal
Il coraggio di Nada per evitare il matrimonio combinato. Aveva 10 anni quando i genitori decisero di darla in sposa ad un ricco signore yemenita che vive in Arabia Saudita. Lei si è opposta con tutte le sue forze, chiedendo aiuto ad uno zio. Ora che è al sicuro, attraverso Youtube, lancia la sua battaglia contro i genitori che costringono i figli ad accettare matrimoni combinati.

Yemen: Nada Al-Ahdal, 11 anni e una promessa di matrimonio alle spalle. Una decisione che l'ha costretta a prendere una decisione dura per una bambina della sua età, scappare dalla sua famiglia che l'ha venduta a un uomo molto più grande di lei.

Nada racconta la sua storia si un video postato su YouTube che in poche ore ha girato il mondo. Parla in modo chiaro, deciso, maturo, tanto da sembrare un'attrice. Mi piace immaginare che lo sia. Mi piace immaginare che il suo racconto sia una semplice denuncia di una realtà che purtroppo esiste davvero, ma che non vorresti mai possa concretizzarsi negli occhi di una bambina innocente.

Con molta consapevolezza, nel suo appello, Nada spiega che preferirebbe morire piuttosto che sposarsi alla sue tenera età ed essere condannata ad una vita non desiderata, ad un rapporto imposto.

"Mi rivolgo alle bambine nel mondo arabo
perché sappiano difendere la loro infanzia".
Queste le sue toccanti parole: "Voglio realizzare i miei sogni. Mia zia è stata costretta a sposarsi a 13 anni e quando non ce l'ha fatta più, a 14 anni, si è cosparsa di benzina e si è data fuoco. Io voglio andare a scuola, avere una vita. Non voglio saperne nulla di un matrimonio ora. Voglio dire a tutti i genitori: Non uccidete i nostri sogni. Se mi fossi sposata non avrei avuto nessuna vita, nessuna istruzione. Possibile che non hanno alcuna compassione? Cosa abbiamo fatto noi bambini per meritarci questo? Che fine ha fatto l'innocenza dell'infanzia?

Preferirei morire piuttosto che sposarmi. Io sono riuscita a risolvere il mio problema. Ma tante bambine non ce la fanno e potrebbero morire o suicidarsi. Alcune bambine si sono gettate in mare e sono morte. Questo non è normale. I miei genitori hanno minacciato di uccidermi se fossi tornata da mio zio".

Una cosa voglio dire alla mia famiglia:
"Credetemi, con voi ho chiuso. Avete distrutto i miei sogni".



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18 dicembre 2013

Siria, un paese sull'orlo dell'abisso

Profughi siriani
I numeri sono lo specchio dell'orrore. L'ONU ha fatto sapere che l'anno prossimo avrà bisogno di 13 miliardi di dollari (7 da versare immediatamente) per soddisfare le primarie necessità di otto milioni di profughi siriani, di cui due milioni si sono già rifugiati negli stati limitrofi. 

Il denaro non arriva, nonostante il prezzo del pane sia aumentato del 500 per cento nel giro qualche mese in diverse regioni della Siria e le forze del regime attacchino i forni e i convogli alimentari, e che l'organizzazione sistematica della carestia sia diventata un'arma di guerra, i medici e gli infermieri vengano assassinati se osano curare i malati e i feriti ribelli e all'orizzonte non si intraveda la fine di questo bagno di sangue.

In teoria il prossimo 22 gennaio dovrebbe aprirsi la conferenza di pace "Ginevra due", ma allo stato attuale ci sono ancora diversi punti in sospeso e non è sicuro che l'incontro avverrà. Ma anche se fosse, quale sarà l'esito della conferenza? Dopo due giorni di discussioni tra le grandi potenze (i cui obiettivi sono contrastanti), i rappresentanti del regime e dell'insurrezione si incontrerebbero faccia a faccia alla presenza di un inviato speciale dell'ONU, che difficilmente riuscirebbe a spingerli sulla via del compromesso.

Bashar al Assad
Il regime proporrà al massimo un governo di coalizione sotto la guida di Bashar al Assad, che conserverebbe i suoi attuali poteri. I ribelli invece pretenderanno (appoggiati dall'occidente ma non dalla Russia) che il capo del regime ceda immediatamente il passo ad un governo di transizione che coinvolga tutte le forze del paese, rinunciando ad ogni incarico. Dato che nessuna delle due parti vorrà assumersi la responsabilità di un fallimento, il dialogo si trascinerà fino a quando sarà totalmente privo di significato.

Diversamente da tre mesi fa, il dramma siriano pare ormai insolubile. La cecità di russi ed occidentali ha permesso ai jihadisti arrivati dall'estero di mettere le mani sull'insurrezione siriana ed emarginare le figure democratiche che inizialmente guidavano il movimento. La colpa dei russi è di aver sostenuto e armato il regime, che a sua volta ha radicalizzato l'insurrezione con la sua spietatezza, prendendo di mira i democratici laici per presentarsi come l'unica alternativa ad "Al Qaeda". Dal canto loro gli occidentali, con l'eccezione della Francia, si sono rifiutati di sostenere militarmente i ribelli, contribuendo alla loro sconfitta e lasciando campo libero ai jihadisti, armati grazie a fondi pubblici e privati provenienti dalle monarchie petrolifere.

La verità è che i jihadisti stanno prendendo il sopravento. E così, davanti a un disastro che hanno contribuito a creare, molti stati occidentali cominciano a pensare che forse Assad è meglio di Al Qaeda, come dire che la peste è meglio del colera. I democratici siriani sono stati abbandonati, e insieme a loro un popolo intero è stato lasciato in preda alla miseria e alla disperazione.


Articolo scritto da Bernard Guetta
traduzione di Maris Davis
È un giornalista francese esperto di politica internazionale.
Ha una rubrica quotidiana su Radio France International e collabora con Libération.


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15 dicembre 2013

Jorr, dal Gambia all'Italia. Storia di una bambina coraggiosa

Jorr al suo arrivo a Lampedusa
"È tanto lontana da qui Reggio Emilia?", è la prima cosa che ha detto Jorr appena arrivata a Lampedusa.

La Storia di Jorr, bambina di 8 anni, un piccolo angelo dal Gambia, 4.000 chilometri da sola senza un soldo, ma con un biglietto e un numero di telefono italiano stretto tra le mani, quello di suo papà, un rifugiato politico che si trova a Reggio Emilia in attesa di un permesso di soggiorno. Jorr si è fatta 5 mesi di viaggio solo per vedere il padre.

Una storia da libro Cuore che ci ha davvero commosso. Jorr è arrivata il 27 settembre 2013 in Sicilia a bordo di una nave mercantile con altri 183 immigrati, e ha chiesto subito dove si trova Reggio Emilia. Ora la piccola Jorr si trova a Palermo in una struttura protetta, e presto vedrà suo padre, auguriamo a tutti e due di vivere felici in Italia, magari assieme alla mamma che è ancora in Gambia.

Jorr con suo padre
Jorr rivede suo papà
Giovedì 12 dicembre Jorr ha potuto riabbracciare il papà, proprio nel giorno del suo ottavo compleanno. Per lei un bellissimo regalo di Natale.

La speranza è diventata realtà. Mentre era ancora a scuola con i suoi compagni, l’ha visto spuntare all'improvviso. Una sorpresa che le ha tolto il fiato e l'ha gettata al collo del papà, Abdoulie Gai, per tutta la mattina ha continuato a ripetere "Sei qui, papà sei qui. Guardami, guardami". E poi, con un sorriso gigante stampato sulla faccia, indicava uno dopo l’altro tutti i nuovi compagni di classe, le maestre, i volontari della struttura di Piana degli Albanesi che l’ha accolta insieme alla zia Absa.

Abdoulie Gai ha 27 anni ed è arrivato a Palermo dopo 17 ore di treno e un biglietto acquistato mettendo da parte la paghetta settimanale come migrante in attesa di asilo, vuole ricominciare una vita in Italia con la sua famiglia: Jorr, appena ritrovata, ma anche la moglie Margot incinta, ancora in Gambia con altri due figli.

"In Gambia avevo un impiego come meccanico. So lavorare il ferro e l’acciaio e sono sicuro che a Reggio Emilia riuscirò a trovare lavoro come operaio. Quello che voglio è vivere qui con tutta la mia famiglia".

Jorr e il padre nella struttura di Piana degli Albanesi con gli insegnanti e il personale


Approfondimenti


14 dicembre 2013

Mutilazioni Genitali Femminili, ancora l'Africa la culla di una pratica assurda.

Lotta alle Mutilazioni Genitali Femminili
Secondo i dati aggiornati di fonte OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), sono tra 100 e 400 milioni le bambine, ragazze e donne nel mondo che hanno subito una forma di mutilazione genitale.

L'Africa è di gran lunga il continente in cui il fenomeno delle MGF (Mutilazioni Genitali Femminili) è più diffuso, con 91,5 milioni di ragazze di età superiore a 9 anni vittime di questa pratica, e circa 3 milioni di altre che ogni anno si aggiungono al totale.

La pratica delle MGF è documentata e monitorata in 27 paesi africani e nello Yemen. In altri Stati (India, Indonesia, Iraq, Malesia, Emirati Arabi Uniti e Israele) si ha la certezza che vi siano casi di MGF ma mancano indagini statistiche attendibili.

Meno documentata è la notizia di casi di MGF avvenuta in America Latina (Colombia e Perù), e in altri paesi dell'Asia e dell'Africa (Oman, Sri Lanka, Repubblica Democratica del Congo) dove tale pratica non è mai assurta a tradizione vera e propria.

Infine, sono stati segnalati casi sporadici di MGF anche in paesi occidentali (Italia compresa), limitatamente ad alcune comunità di emigrati.

Varietà etnica e geografica del fenomeno
Le stime sulla diffusione delle MGF provengono da indagini socio-sanitarie su scala nazionale che vengono condotte tra donne di età inclusa tra 15 e 49 anni.

La prevalenza del fenomeno varia considerevolmente da regione a regione all'interno del medesimo Stato: a fare la differenza è l'appartenenza etnica.

Paesi dell'Africa dove le MGF sono maggiormente praticate
(Clicca sulla foto per ingrandire)
In 7 Stati (Egitto, Eritrea, Gibuti, Guinea, Mali, Sierra Leone e Somalia) e nel Nord del Sudan il fenomeno tocca praticamente l'intera popolazione femminile. In altri 4 paesi (Burkina Faso, Etiopia, Gambia, Mauritania) la diffusione è maggioritaria, ma non universale. In altri 5 (Ciad, Costa d'Avorio, Guinea Bissau, Kenya e Liberia) il tasso di prevalenza è considerato medio, tra il 30 e il 40% della popolazione femminile, mentre nei restanti paesi la diffusione dell MGF varia dallo 0,6 al 28,2%.

Anche il tipo di intervento mutilatorio imposto varia a seconda del gruppo etnico di appartenenza. Il 90% delle MGF praticate è di tipo escissorio (con taglio e rimozione di parti dell'apparato genitale della ragazza), mentre un decimo dei casi si riferisce all'azione specifica della "infibulazione", che ha come scopo il restringimento dell'orifizio vaginale.
(fonte Unicef)

In ItaliaSi stima che anche in Italia ci siano più di 40mila bambine vittime di infibulazione (per lo più appartenenti a comunità di immigrati). È il dato più alto d’Europa, che conta 500mila casi. Questi numeri emergono da uno studio commissionato dal dipartimento delle Pari Opportunità del Ministero dell'Interno, e si tratta di una stima molto approssimativa. L'Italia nel 2006 si è dotata di una legge ad hoc (legge n. 7 del 6 gennaio 2006) che proibisce questa usanza, ma purtroppo l'infibulazione è ancora praticata in segreto tra gli immigrati, in particolari tra quelli di etnia africana.

Video (Inglese)


Pregiudizi alla base delle Mutilazioni Genitali Femminili (Infibulazione)

Le mutilazioni genitali femminili (MGF) vengono praticate per una serie di motivazioni: 

Ragioni sessuali:
soggiogare o ridurre la sessualità femminile.

Ragioni sociologiche:
iniziazione delle adolescenti all'età adulta, integrazione sociale delle giovani, mantenimento della coesione nella comunità.

Ragioni igieniche ed estetiche:
in alcune culture, i genitali femminili sono considerati portatori di infezioni e oscenità. 

Ragioni sanitarie:
si pensa a volte che la mutilazione favorisca la fertilità della donna e la sopravvivenza del bambino.

Ragioni religiose:
molti credono che questa pratica sia prevista da testi religiosi (Corano).

Sradicare credenze, tradizioni è difficile, ma la causa principale delle Mutilazioni Genitali Femminili è la volontà di sottomettere la donna all'uomo. Le nuove generazioni africane sono molto più informate, ed è proprio la conoscenza la chiave per risolvere il problema.

Da bambina (nel sud Nigeriami salvò mia nonna dall'infibulazione, le mie sorelle più piccole purtroppo hanno dovuto subire e stanno ancora soffrendo per quel gesto orribile che è il taglio del "clitoride". Mia mamma è stata una debole, succube di un marito (mio padre) prigioniero dei pregiudizi e delle tradizioni .. (Maris)

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09 dicembre 2013

Nkrumah e la Costa d’Oro, oggi Ghana


Francis Nwia-Kofi Ngonloma detto anche Kwame Nkrumah
Ghana
Nkrumah nacque a Nkroful, nell'allora Costa d'Oro, da una famiglia di religione cristiana relativamente umile. Frequentò le scuole elementari nella località di Half Assini e si diplomò ad Accra al Government Training College. Nel 1935 lasciò il Ghana per gli Stati Uniti d'America. Qui lavorò e completò i suoi studi in una grande varietà di materie (insegnamento, economia, sociologia, scienze politiche, marxismo e teologia).

Nkrumah aveva vissuto l’esperienza della discriminazione razziale ed era rimasto colpito dal pensiero di alcuni attivisti afroamericani, come Marcus Garvey e W.E.B. Dubois. Dagli Stati Uniti si recò in Gran Bretagna con l’intenzione di continuare i suoi studi e lì ebbe un ruolo di primo piano nella West African Students' Union e collaborò come segretario all'organizzazione del V Congresso Panafricano a Manchester.

Tornò in Ghana per partecipare alla lotta per il diritto del suo popolo all'autodeterminazione, ma tra lui e gli altri membri dell'UGCC, l’United Gold Coast Convention, il primo partito politico del Ghana, i rapporti furono da subito tesi. Nel 1948 Nkrumah e gli altri leader dell'UGCC furono arrestati con una scusa dal governo coloniale dopo una serie di tumulti e disordini che travolsero il paese: l'arresto non fece però che aumentare la sua popolarità e fu rilasciato poco dopo.

Nel giugno dello stesso anno Nkrumah ruppe ufficialmente con l’UGCC e il giorno successivo diede vita al Convention People’s Party (CPP), seguito dalla sezione giovanile e da molti esponenti di sinistra del partito. Il motto del CPP divenne “Self-Government NOW”, “Autogoverno ADESSO”. Nkrumah cercò di coinvolgere nel suo partito persone di ogni estrazione sociale, comprese le donne. Vennero fondati nuovi quotidiani nazionalisti, l’Accra Evening News e il Cape Coast Daily Mail, che a differenza delle precedenti pubblicazioni politiche del paese erano scritti in modo semplice e comprensibile. Il governo provò a censurare i giornali ma ancora una volta la scelta della repressione non fece che infiammare di più la popolazione.

Kwame Nkrumah
Il 9 gennaio 1950 Nkrumah proclamò un grande sciopero con dimostrazioni che coinvolse tutto il paese, detto “Positive Action” (azione concreta): l’idea era di seguire l’esempio di Gandhi in India. Alcuni tumulti che accompagnarono lo sciopero diedero al governo la scusa per arrestarlo nuovamente.

Nel febbraio 1951 comunque il CPP decise di partecipare alle elezioni e il nuovo governatore Sir. Charles Alden permise a Nkrumah, che era ancora in carcere, di competere per un seggio all'Assemblea. L’esito delle votazioni fu un trionfo per Nkrumah. Davanti a questa schiacciante vittoria Alden decise di rilasciarlo insieme ad altri membri del CPP che erano stati arrestati, e di nominarlo Leader of the government business e, l’anno dopo, Primo ministro. Una delle prime mosse di Nkrumah fu di modificare la Costituzione trasformando l’Assemblea Legislativa in una camera interamente eletta a suffragio universale. Nel 1954 nuove elezioni diedero di nuovo una nettissima vittoria al CPP.

Così Nkrumah riuscì a guidare il suo paese, che ribattezzò Ghana in luogo del nome di Costa d'Oro dell'epoca coloniale, verso l'indipendenza, che fu ottenuta il 6 marzo 1957.

Fino al 1960 un rappresentante della Corona inglese aveva ancora il titolo di Capo di Stato onorifico. Nel 1960 il Ghana fu proclamato una repubblica e Nkrumah venne eletto presidente battendo J.B. Danqua, candidato dell’opposizione.

Uno dei primi obiettivi del governo Nkrumah fu quello di promuovere lo sviluppo del paese in modo che le sue risorse potessero essere usate per migliorare il benessere della popolazione, e non solo per produrre beni da esportare nei paesi sviluppati. Dal punto di vista ideologico Nkrumah era un sostenitore del socialismo africano. Venne quindi creato un sistema economico che combinava la libera iniziativa privata a un forte ruolo dello Stato nell'economia.

In un primo tempo la politica di Nkrumah ottenne discreti successi, soprattutto nel campo dell'istruzione e della costruzione di infrastrutture (la grande diga di Akosombo), ma i programmi di sviluppo imposero anche un peso alle finanze del paese che, unito agli sprechi e alla diffusione della corruzione, si rivelò a un certo punto insostenibile. Amareggiato dalle difficoltà che il Ghana incontrava nel suo tentativo di emanciparsi anche dal punto di vista sociale ed economico, Nkrumah divenne sempre più appassionato nel denunciare il neo-colonialismo. Per battere queste forze Nkrumah aveva in mente una soluzione già dai tempi della sua militanza nel movimento panafricano: l’unione di tutta l’Africa in una federazione.

Egli vedeva nella federazione dell’Africa l’unico modo per il continente di emanciparsi realmente e di ritagliarsi uno spazio nell’epoca dei blocchi contrapposti. Coerentemente, era favorevole a una politica di “neutralismo attivo” rispetto alla guerra fredda.

Negli anni della decolonizzazione l’idea che dovesse sorgere una qualche forma di organizzazione tra i paesi africani riscuoteva un generale consenso. Ma Nkrumah insisteva per voler subito gettare le basi di un’unione politica tra gli Stati del continente e fu presto chiaro che questa posizione non era accettata dalla maggioranza dei leader politici. Perciò l’Organizzazione dell'Unità Africana (OAU) non era ciò che Nkrumah desiderava, ma solo un organismo intergovernativo.

Nel 1965 Nkrumah non esiterà a spendere 10 milioni di sterline inglesi per edificare un Palazzo dell’Unità Africana ad Accra in occasione della Conferenza dei capi di Stato e di governo dell'OUA, ma ormai il suo sogno federalista era tramontato e, in un momento in cui l’economia del paese si trovava in difficoltà, i costi che la sua ambiziosa politica estera imponeva gli alienarono ancora di più l’appoggio della popolazione.

La sua linea di intransigenza verso il neo-colonialismo e il suo rifiuto dell’idea di un’Eurafrica lo aveva portato a scontrarsi con le potenze occidentali ma anche con gli Stati africani ad esse legati. Il suo sostegno ai "combattenti per la libertà" nel resto del continente e il suo riavvicinamento negli ultimi anni all'Unione Sovietica e alla Cina contribuivano a creargli una fama di rivoluzionario scomodo e ad attirargli il biasimo dei "moderati". Tutti questi fattori lo isoleranno sul piano internazionale e saranno perciò una delle cause della sua caduta. Un'altra causa sarà la piega sempre più autoritaria che il suo regime aveva preso dall'epoca dell’indipendenza.

Nel 1964 Nkrumah, tramite un referendum, fece proclamare il CPP, di cui aveva assoluto controllo, partito unico del Ghana, e sé stesso presidente a vita. Proprio però queste esasperazioni avrebbero privato Nkrumah di quella che all'epoca dell’indipendenza era stata la fonte del suo successo: la capacità di interpretare i sentimenti e i bisogni delle masse popolari.

Il 24 febbraio 1966, mentre il presidente era impegnato in una missione di pace ad Hanoi, l’esercito e la polizia annunciarono la sua estromissione dal potere, la sospensione della Costituzione e la formazione di un governo militare provvisorio. Nkrumah trovò ospitalità in Guinea.

Il 27 aprile 1972 Kwame Nkrumah morì di cancro in Romania, dove si era recato per curarsi. Nkrumah è stato e resta un punto di riferimento per tutta l’Africa e una delle figure più importanti nella lotta contro il colonialismo e per l’emancipazione dei popoli del terzo mondo.

Altre Fonti (Wikipedia)

07 dicembre 2013

Darfur, 300 mila sfollati in sei mesi.

Nonostante la crisi umanitaria in quest’angolo di mondo sia più pressante che mai e la recrudescenza degli attacchi armati, sia da parte delle forze militari governative sia di ex miliziani, non c’è media che se ne occupi.

Testimonianza di Antonella Napoli, presidente di Italians for Darfur e giornalista di Repubblica

Una tenda logora quattro metri per quattro. Sette brande rabberciate, tre donne e cinque bambini, altrettante siringhe da 5 millimetri di latte. Questo è l’ultimo ricordo visivo, seppur non il più forte, del mio viaggio in Darfur dello scorso inverno.  Sono passati dieci mesi ma quell'immagine è ben nitida nella mia mente perché, nonostante la profonda disperazione che trasmetteva, era l’unico barlume di speranza in un contesto drammatico. Una microscopica goccia di "vita", rappresentata da quel latte artificiale che sostituiva quello materno delle donne darfuriane che, sfinite dalla malnutrizione e traumatizzate dal conflitto, non ne hanno più.

Nonostante la crisi umanitaria in quest’angolo di mondo sia più pressante che mai e la recrudescenza degli attacchi armati, sia da parte delle forze militari governative sia di ex miliziani, non c’è media che se ne occupi. La Siria occupa, da sola, quei già residui spazi dedicati alle notizie su conflitti e tragedie umanitarie in corso nel mondo. A poco è valso l’impegno di organizzazioni come la nostra o la denuncia di Amnesty International, che ha di recente presentato un nuovo rapporto sulle violenze nella regione e in altre aree limitrofe dalla fine del 2012 e che negli ultimi mesi hanno registrato un’escalation che non lascia adito a dubbi. È in atto una nuova forte repressione nei confronti della ribellione e della popolazione civile del Darfur. Ma la coltre calata su questo conflitto è impenetrabile.

Eppure almeno duecento persone sono rimaste uccise negli ultimi due mesi in Darfur nei violenti scontri tra fazioni rivali. L’ultimo bollettino umanitario fornito dalle Nazioni Unite traccia un quadro allarmante e tragico: un centinaio di esponenti della tribù Reizegat sono morti nei combattimenti, altrettanti  tra le fila dei Maaliya, oltre trecento i feriti e decine di migliaia di persone, tra rifugiati del Darfur e ciadiani rimpatriati, costrette ad abbandonare i propri villaggi. Il flusso più ampio di sfollati in Darfur è stato registrato tra gennaio e giugno 2013, poi per un paio di mesi si era ridotto per riprendere nelle ultime settimane. La maggioranza dei profughi ha cercato rifugio nella zona di Tissi, nel sud-est del Ciad.

Da un’indagine retrospettiva sulla mortalità pubblicata di recente da Medici Senza Frontiere, risulta che il 93% delle morti tra gli sfollati è avvenuto in Darfur, prima che potessero raggiungere il Ciad, ed è stato causato principalmente dalla violenza. Se nella regione occidentale del Sudan a fare vittime sono gli scontri tra fazioni contrapposte, in Kordofan sono i bombardamenti delle forze armate di Khatoum. L’aeronautica sudanese da maggio scorso ha intensificato i raid sui villaggi dei Monti Nuba nonostante una dichiarazione di cessate il fuoco proclamata dal governo. La denuncia di nuovi attacchi contro la popolazione civile mossa dal Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese-Nord è stata riportata dal Sudan Catholic Radio Network. Un cacciabombardiere Mig sudanese avrebbe sganciato quattro bombe sul villaggio di Umserdiba e altre due su quello di Genesia, distruggendo colture e abitazioni rurali. Un Antonov da trasporto convertito in rudimentale bombardiere, avrebbe poi sganciato otto bombe sui villaggi di Hejerat e Habab. Le Montagne Nuba si trovano nel Sud Kordofan, al confine tra Sudan e Sud Sudan, dove dal 2011 è in corso un conflitto tra l’esercito di Khartoum e l’Splm-N. A confermare bombardamenti e scontri ci sono foto satellitari ottenute dal Progetto Enought.

I satelliti posizionati sull'area hanno documentato che l’aviazione sudanese ha effettuato un raid nei pressi del villaggio di Jau nello Stato sud-sudanese di Unity. Il bombardamento sarebbe avvenuto a pochi giorni dagli accordi raggiunti il 3 settembre tra il Presidente sudanese Omar Al-Bashir e il suo omologo sud-sudanese Salva Kiir, volti a mettere fine al lungo contenzioso sulle esportazioni di petrolio sud-sudanese attraverso le strutture controllate da Khartoum. I sopravvissuti raccontano le stesse storie: uomini armati, spesso in uniformi dell’esercito, arrivano su Land Rover o altri mezzi pesanti, bruciano i loro villaggi, uccidono gli uomini, violentano le donne e fanno razzia di tutto quello che trovano. Sono ormai 10 anni, da quando è iniziato il conflitto in Darfur, che ciclicamente si verificano episodi simili. Ma i mezzi d’informazione ne parlano poco e solo se ci mette la faccia un personaggio famoso come George Clooney. E questo silenzio autorizza i leader del Sudan a riprendere e continuare a massacrare la loro gente, oggi come nel 2003.

I sopravvissuti degli ultimi attacchi dicono che a guidare questa nuova repressione sia una vecchia conoscenza della Corte Penale Internazionale, Ali Kushayb, su cui pende già un mandato per i crimini di guerra commessi in Darfur tra il 2003 e il 2006. Le vittime della nuova ondata di violenze sono membri di due gruppi etnici che finora non erano mai stati colpiti, i Salamat  e i Beni Hussein. Secondo le denunce degli anziani dei villaggi il governo avrebbe come obiettivo quello di scacciare dalle proprie terre i Beni Hussein perché mirerebbe all’oro di cui l’area è ricca. Diversa la motivazione dell’allontanamento forzato dei Salamat, scacciati per consegnare i terreni che coltivavano o utilizzavano per la pastorizia a un gruppo arabo "leale" a Khartoum, i Miseriya.

Insomma il modus operandi del presidente del Sudan Omar Hassan al Bashir, ricercato dalla CPI (Corte Penale Internazionale) oltre che per crimini di guerra e crimini contro l’umanità anche per genocidio, non è cambiato. E le cifre fornite dalle Nazioni Unite, che hanno stimato in oltre 300 mila i nuovi sfollati nei primi otto mesi di quest’anno (all'incirca tanti quanti nei due anni precedenti) dovrebbero scuotere le coscienze di quanti continuano a ostinarsi a ignorare questa crisi dimenticata.


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