25 marzo 2012

Nigeriane minorenni vittime di schiavitù sessuale. Testimonianze

Premessa - Di seguito sono riportati quattro casi riguardanti vittime minorenni ospiti nei servizi di accoglienza residenziale. Le informazioni sono state raccolte in parte dagli operatori e in parte da membri di un gruppo di ricerca. Di ciascun caso biografico si riportano notizie relative alla provenienza geografica, agli aspetti anagrafici, alle modalità di reclutamento e del successivo giuramento rituale, al viaggio, alle rotte perseguite e all’attraversamento della frontiera; nonché dettagli sullo sfruttamento subìto e sul processo di sganciamento attivato direttamente o con l’aiuto di agenti di Polizia, conoscenti o degli operatori sociali. Questi aspetti approfondiscono quanto già descritto nei nostri precedenti articoli, aggiungendo tasselli conoscitivi sulle dinamiche relazionali che intercorrono tra la maman e i suoi diversi collaboratori e tra questi e la vittima (con alcuni familiari di sfondo).
Nei (brevi) racconti si rileva, nonostante la minore età, una solidità esistenziale considerevole, anche in rapporto alla particolare e soverchiante esperienza vissuta, e al contempo, una sostanziale fragilità; condizione che tuttavia non affievolisce la forte dignità personale delle stesse vittime e la loro continua e ostinata ricerca per individuare i tempi e i modi per sganciarsi dall’assoggettamento schiavistico. Si rileva, inoltre, una dedizione alla famiglia talmente forte che pur di non contrariarla, o limitarne il suo sviluppo economico, si accetta qualsiasi cosa, anche assoggettarsi alla maman e alle sue pratiche predatorie. Ciò che accomuna l’insieme dei racconti biografici è il desiderio di espatriare, migliorare la propria esistenza e quella della propria famiglia, e dunque l’indebitamento della stessa famiglia (il cui peso principale graverà comunque sulla vittima) per sostenere le spese del viaggio.
Questo diventa il vero punto di forza delle maman e delle loro organizzazioni criminali: prestare denaro, far giurare solennemente alla futura vittima la sua restituzione, far espatriare la stessa e poi costringerla con la violenza a vendere il proprio corpo per soddisfare il contratto di restituzione, raggirarla e truffarla con il sostegno solenne di figure religiose tradizionali corrotte. La rottura di questa relazione avviene o per l’esaurirsi del prestito, cioè quando la minore restituisce tutti i soldi alla maman, oppure come emerge dai racconti, per un processo di maturazione della vittima che porta inevitabilmente alla rottura della relazione asimmetrica. L’aggancio con i servizi, l’eventuale denuncia degli sfruttatori (1) e l’ingresso in servizi di accoglienza residenziale per recuperare l’autonomia perduta rappresentano le fasi di fuoruscita dallo sfruttamento.
L’approccio biografico, ad approfondimento dei dati e dell’intervista qualitativa a testimoni chiave, è stato scelto poiché l’apertura dello specifico strumento di intervista, consente di dare spazio al racconto e lasciare una certa spontaneità all’interlocutore sulle tematiche da esplicitare. Spontaneità che comunque, nei nostri casi, si è concentrata su quegli aspetti più traumatici delle esperienze vissute e queste, proprio perché comuni a tutti i casi raccolti, rappresentano una particolare esperienza sociale configurando una relazione complessa che investe e coinvolge nella stessa maniera altre persone. La scelta di tale approccio si spiega, con la capacità dei racconti di segmenti di vita di indagare in profondità gli aspetti più complessi e intrinseci del fenomeno migratorio e, all’interno di questi, delle forme di grave sfruttamento sessuale, come emergono con forza dai casi presentati.
(I nomi pubblicati sono nomi di fantasìa)

(1) Con le recenti disposizioni normative – il c.d. “pacchetto sicurezza” – che prevedono, tra l’altro una sanzione amministrativa di tipo economico si assisterà ad una ulteriore stretta nella concessione dei permessi di soggiorno per motivi sociali – ossia senza fare una denuncia verso gli sfruttatori - per le vittime di tratta, come prevede l’art. 18 del T.U. sull’immigrazione del 1998. Sarà difficile distinguere le minorenni trafficate e sfruttate dalle semplici migranti senza documenti, se non si costruiranno dei servizi di ascolto nei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE). Per le minorenni nigeriane (ma anche per le adulte) che arrivano via mare, non essere riconosciute come vittime della tratta, appena sbarcate, e dunque protette in quanto tali, significherà subire una ulteriore umiliazione e dunque violenza. L’Associazione Be Free di Roma, che gestisce uno sportello di assistenza psico-sociale e legale nel CIE di Ponte Galeria, ha rilevato che su 111 donne nigeriane presenti nel Centro, almeno il 25% di esse (dalle 25 alle 28 unità) sono minorenni, e quasi tutte hanno subito violenza sessuale e forme diverse di grave sfruttamento a Tripoli in attesa di un imbarco per Lampedusa. Anche tra le adulte nigeriane l’Associazione ha riscontrato molti casi di violenza sull’esperienza di sostegno a donne nigeriane trattenute presso il CIE di Ponte Galeria e trafficate attraverso la Libia.

Il racconto di Sarah - Io mi chiamo Sarah e vengo da Benin City, ma sono cresciuta nel Delta State con la mia famiglia.
Sono nata a gennaio del 1992. Il capo villaggio aveva regalato un pezzo di terra a mio padre dove aveva costruito la nostra casa. Mio padre, quando ho compiuto 14 anni, mi ha dato in sposa al capo villaggio che all’epoca aveva 59 anni, 5 mogli e molti figli. Io sono diventata la sua sesta moglie. Ho vissuto per quasi 1 anno con mio marito. Non avrei voluto sposare quell’uomo molto più grande di me, ma mio padre mi aveva costretta a farlo perché diversamente avrebbe perso la sua terra e la casa. Agli inizi del 2007 ho avuto un figlio con mio marito e la situazione è diventata sempre più difficile. Sono fuggita dalla casa coniugale dopo pochi mesi ma mio padre non mi ha più accolta in casa sua perché temeva la reazione di mio marito.
Ho vissuto per un periodo a casa di mia zia a Benin City e lei si è presa cura del mio bambino. Mio marito dopo la mia fuga ha mandato dei sicari per uccidere mio padre e a bruciare la casa in cui avevo vissuto con la mia famiglia. Per fortuna non ci riuscì. A Benin City ho incontrato il mio attuale compagno di nome B., con cui ho deciso di venire in Italia. In città abbiamo incontrato un suo amico di nome F. che viveva in Libia proponendoci, sentiti i nostri guai, di scappare ed andare con lui. Siamo partiti a novembre del 2007 con F. in direzione della Libia. Il viaggio è stato faticoso: in parte fatto con una jeep ed in parte a piedi.
A febbraio (2008) F. ha aiutato B. ad ottenere la residenza a Tripoli e un posto di lavoro in un autolavaggio. Io facevo le pulizie nelle abitazioni private. La Libia non ci piaceva. A marzo abbiamo conosciuto un ragazzo nigeriano che ci ha detto di avere una sorella in Italia che avrebbe potuto aiutarmi a trovare un lavoro. Ci mettemmo d’accordo per la partenza in cambio di 45.000 euro per il viaggio e per la ricerca di un lavoro.
Questo ragazzo si chiamava J. e mi ha chiesto di dargli alcune cose di me (peli pubici, capelli, uno slip e delle foto) perché le avrebbe mandate in Nigeria per “santificarle” con i riti woodoo da un suo conoscente e poi le avrebbero riportate indietro prima della partenza.
Così fu fatto. In verità devo dire che dopo mi sentivo meglio, mi sentivo come protetta dagli spiriti buoni degli emigranti. Nel giugno del 2008 sono partita da Tripoli su un’imbarcazione di due egiziani che trasportava circa sessanta persone. Abbiamo trascorso in mare 7 giorni prima di raggiungere Lampedusa dove siamo stati intercettati dalla Polizia italiana. I due egiziani ci ripetevano sempre di non fare nessun nome. Una volta sbarcati la Polizia ci ha trasportati in un Centro di accoglienza a Crotone. Io ho telefonato da una cabina telefonica pubblica alla donna nigeriana di nome D., sorella di J., che mi ha detto che mi avrebbe incontrato a Napoli, alla Stazione Centrale.
Ma da Crotone la Polizia mi ha portato al Centro di Bari-Palese (2), e dopo una settimana mi hanno lasciata andare mettendomi in contatto con una associazione di volontariato locale per poter avere un alloggio. A Bari non conoscevo nessuno, e di D. nessuna traccia. Mediante dei ragazzi senegalesi ho conosciuto una donna nigeriana che secondo loro avrebbe forse potuto aiutarmi. Sono andata a trovarla più volte e alla fine, pensando di farmi un favore, mi ha proposto di guadagnare dei soldi prostituendomi. Lei mi avrebbe fornito i profilattici, le creme e i trucchi e mi avrebbe indicato il luogo esatto dove lavorare in cambio di una parte dei guadagni. Mi ha detto anche, sapendo che ero incinta, che agli uomini le donne in gravidanza piacciono di più e quindi avrei avuto molti clienti. Non accettai di prostituirmi. Ma questa donna era entrata in contatto con D. e quindi questa con le minacce mi ha costretta a stare sulla strada. La mia esperienza sulla strada è durata poche settimane.
Sono fuggita e sono andata a trovare di nuovo i ragazzi senegalesi. Questi hanno continuato ad aiutarmi mettendomi in contatto con degli operatori di un Centro di accoglienza di Bari. Accettai il loro aiuto ai primi di settembre, anche perché ero incinta e aspettavo il bambino (che poi è nato a ottobre 2008). L’esperienza sulla strada è durata circa tre settimane. Il mio compagno mi ha raggiunto a Bari.

(2) Dal mese di ottobre 2008 – con “decreto sicurezza” del Ministero degli Interni – i Centri di permanenza temporanea hanno cambiato nome e funzione. Il nome è divenuto “Centro di identificazione ed espulsione” e la funzione è quella di accertare l’identità degli stranieri irregolari e provvedere alla loro espulsione dal territorio nazionale. Ad integrazione di tali interventi il Governo italiano ha istituito, inoltre, la così detta “politica dei respingimenti”, con l’obiettivo di prevenire l’arrivo di immigrati irregolari. Le espulsioni (con la permanenza ai Centri fino a 18 mesi) e i respingimenti (allorquando gli immigrati vengono intercettati prima e durante lo sbarco sul territorio italiano) sono oggetto di serie critiche da parte di organizzazioni non governative e dell’Alto Commissariato alle nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) poiché, nella sostanza, si tratta di interventi discriminatori che ledono i diritti fondamentali della persona. Sono discriminatori poiché non mirano a distinguere, ad esempio, se la condizione di irregolarità di alcuni gruppi femminili (come potrebbero essere le adulte e minori nigeriane che arrivano dalla Libia) sia dovuta al fatto che sono state trafficate a scopo di sfruttamento sessuale e dunque potenziali fruitrici di interventi di protezione sociale (ex art. 18 del T.U. n. 286/98). Per i rifugiati, invece, l’ONU ha formulato il principio di “non respingimento” che stabilisce che i potenziali rifugiati sono protetti non solo dalle espulsioni una volta giunti in Italia ma anche dal respingimento, dal rinvio o accompagnamento al luogo di partenza. Contro il reato di immigrazione clandestina.

Il racconto di Olayinka - Mi chiamo Olayinka e sono nata a Benin City verso la fine del 1992. Ho 4 fratelli e 4 sorelle.
Io sono la seconda. I miei genitori vivono in un villaggio in campagna vicino Benin City. Mio padre è rimasto invalido e così mia madre ha dovuto da sola prendersi cura di tutta la famiglia. Io aiutavo mia madre a vendere al mercato i prodotti del nostro orto. A marzo del 2007, avevo 15 anni, una donna di nome F. che veniva spesso a comprare la verdura da noi, mi ha proposto di partire per l’Italia. La donna era la madre di S., un nostro amico di famiglia. Mia madre non voleva, ma dopo le mie insistenze ha ceduto. La donna per farmi arrivare in Italia voleva in cambio circa 45.000 naira, con un impegno scritto di restituzione del prestito.
Ci accordammo per un prestito di 45.000 naira (che al cambio del 2009 corrispondono a circa 270 euro) (3) che poi, una volta arrivata in Italia, sarebbero divenuti, secondo lei, circa 35.000 euro. Io non conoscevo il valore dell’euro ma ho ritenuto comunque vantaggiosa questa proposta. Successivamente la donna mi ha condotto in un villaggio vicino per incontrare un baba-loa e officiare il patto con la ritualità woodoo, dicendomi che era l’usanza per garantire entrambi della bontà del patto stesso: lei mi trovava un bel lavoro e io restituivo i soldi prestati. Ad aprile 2008 sono partita con un ragazzo di nome V. e con altre ragazze in autobus per raggiungere Kano, poi Sokoto (nel Nord della Nigeria, al confine con il Niger). Qui V. ci ha consegnato dei passaporti falsi e quando la Polizia li ha controllati non abbiamo avuto nessun problema. I giorni successivi siamo arrivati in Algeria e poi, attraversando il confine verso occidente, in Marocco. A Tangeri abbiamo pagato altri 1.500 euro per passare in Spagna con un’altra guida. Questa mi dette un numero di telefono di una donna nigeriana che viveva a Torino. Arrivati a Torino c’era ad attenderci un altro ragazzo nigeriano (il brother), collaboratore della donna a cui avevamo telefonato.
Insieme siamo andati a Palermo, dove abbiamo riconsegnato al brother, prima della sua partenza per Torino, i documenti falsificati che avevamo usato per il viaggio. Era la fine del mese di giugno del 2007.
Alla stazione di Palermo è venuta a prenderci C., la sorella della donna (ossia F.) che mi aveva contattata in Nigeria. Lei aveva circa 30 anni, ci ha portato in una casa che aveva affittato per noi. Dopo 3 giorni C. ci ha portato dei vestiti molto corti e succinti. Gli abbiamo chiesto il motivo di queste acconciature e per tutta risposta ci ha detto che sapevamo benissimo a cosa servivano. A quel punto ci ha detto che avremmo dovuto prostituirci sulla strada.
Minacciandomi mi ha consegnato una confezione di preservativi. Non potevo scappare perché non conoscevo nessuno e non comprendevo la lingua italiana. C. mi ha ricordato che avevo un debito da pagare e che dovevo iniziare a restituirlo. Lei era solo la cassiera della maman che stava in Nigeria e non voleva storie. Dovevo restituire 35.000 euro contratti per il viaggio senza nessun ripensamento. C. mi picchiava molto spesso perché io sulla strada piangevo sempre e i clienti non si fermavano da me.
Ciò che guadagnavo lo consegnavo tutto a lei, che mi ha impedito di chiamare la mia famiglia per molto tempo. Per nove mesi mi sono rassegnata a lavorare in strada a Palermo al Parco della Favorita. Durante la settimana guadagnavo 70-80 euro al giorno all’incirca e qualche volta anche 100. Ogni domenica mattina C. veniva a prendere tutto il mio guadagno della settimana, quasi 600-700 euro. A metà 2008 la polizia mi ha fermata sulla strada per un controllo. Non avendo documenti sono stata prima portata in questura a Palermo e poi trasferita a Roma. Da qui sono uscita e C., telefonandomi, mi disse di raggiungerla a Milano (dove c’era sua sorella). C., infatti, mi aveva ceduto alla sorella F. Questa mi disse che era lei la mia nuova maman e che il prestito ricevuto dovevo pagarlo a lei, ossia mi dovevo prostituire per lei, e che i soldi che avevo già dato a C. non riducevano il mio debito con lei.
Per alcuni mesi mi sono prostituita per forza guadagnando molto poco. F. era molto arrabbiata con me, al punto di farmi picchiare da tre suoi boys. Era il gennaio 2009. A quel punto ho deciso di non fare più quel lavoro. Ho detto basta. Un signore italiano che frequentavo mi ha dato delle informazioni su un centro di accoglienza di Firenze. Mi sono messa in contatto con il centro e dopo qualche giorno sono stata accolta. Ho trascorso un mese presso una struttura di accoglienza gestita dalle suore e poi sono partita per Roma dove sono entrata in una casa-famiglia. Attualmente (maggio 2009) sono ancora a Roma. L’esperienza sulla strada è durata circa dieci mesi.

(3) In realtà 45.000 naria corrispondono, al cambio di giugno 2009, a circa 270 euro, mentre 4.500.000 naria sono circa 27.000 euro; ma poi confondendo le cifre e truffando sui cambi e su qualche spesa extra addebitata alla vittima i naria originali vengono convertiti dalla maman in 35.000-45.000 euro forfettari. In sostanza siamo davanti, oltre tutto il resto, a truffe monetarie di elevata maestria criminale. Già da questo cambio informale la maman decupla il suo denaro, dando per assodato, in via ipotetica, che spendendo 2.700 euro per il viaggio attraverso rotte informali, almeno fino all’ultimo paese di frontiera per l’Italia o per altri paesi europei, ne ricaverà un profitto sproporzionato.

Il racconto di Fayola - Mi chiamo Fayola e sono nata alla fine del 1991, adesso (ottobre 2008) ho 17 anni. Sono nata a Benin City nella zona universitaria, dove ho sempre vissuto. Mio padre si chiama N. e attualmente ha 72 anni e mia madre si chiama R. ed ha 55 anni. Mia madre è la terza moglie di N. I miei genitori, attualmente in pensione, sono stati entrambi impiegati delle Poste, ciò nonostante avevano problemi economici. Quando avevo 12 anni si sono lasciati e io ho vissuto con mia madre e i miei fratelli. Eravamo piuttosto poveri. A complicare le cose è arrivata la mia gravidanza. Infatti S., il mio compagno, era povero quanto me.
Una conoscente di nome E. mi prospettò l’idea di emigrare, naturalmente all’insaputa di mia madre perché sapevo che sarebbe stata contraria. E. mi raccontò che aveva una sorella in Italia che aveva bisogno di una baby-sitter. Ai soldi ci avrebbe pensato lei, dandomi un prestito. Assolto il debito sarei stata libera di gestire la mia permanenza in Italia. Accettai la proposta, dicendo a mia madre che andavo a Lagos dai miei fratelli, così con E. ci recammo da un “pastore” che ci portò in riva ad un fiume. Qui iniziò una cerimonia: il pastore mi fece inginocchiare, accese delle candele ed enunciando preghiere al loa dell’acqua (chiamato “mami-water”, dalla stessa intervistata) versò sulla mia testa dell’acqua raccolta con un vaso dal fiume; giurai così davanti ai loa di obbedire a quanto la maman, che era presente allacerimonia, mi consigliava di fare e di non disubbidirle mai.
In quell’occasione lasciai alla donna e al “pastore” delle mie fotografie, una maglia che portavo con me e un sacchettino piccolo fatto con un pezzo di stoffa del mio vestito dove mi avevano detto di conservare una ciocca di capelli. Era l’estate del 2005. Il giorno dopo con una macchina, guidata da M., insieme ad un’altra ragazza, raggiungemmo la città di Cotonou e andammo da una signora che si faceva chiamare “mami”. Con lei, due settimane dopo, facendoci passare per due delle sue figlie, ci trasferimmo a Parigi e da qui in treno a Venezia-Mestre. Era il 26 agosto (del 2005). Alla stazione di Venezia incontrammo J. (un ragazzo nigeriano) e in taxi raggiungemmo la città di Conegliano e arrivammo da A. (la sorella di E.). A. senza mezze parole disse che il lavoro che avrei dovuto fare non era quello di baby-sitter ma di prostituita in strada. Avrei restituito il debito e avrei guadagnato qualcosa anche per me e la mia famiglia. Non ero sola, quindi non dovevo aver paura, ma c’erano altre ragazze della mia età a farmi compagnia.
Mi disse che ogni dieci giorni avrei dovevo darle 1.000 euro e quindi in tre anni avrei saldato il debito. Era il 15 settembre 2005 quando ho cominciato a lavorare in strada. La ragazza che viveva con me si chiamava H. e mi portava con sé a lavorare. Mi ha insegnato a vestirmi e a trattare con i clienti. A. iniziò ad arrabbiarsi con me perché diceva che lavoravo poco. Tiravo su circa 700-800 euro alla settimana. Dopo un violento litigio mi disse che il debito era salito a 80.000 euro. Avevo iniziato a rifiutare dentro di me questa situazione e A. l’aveva capito.
Ma era una persona violenta e mi picchiava spesso. Una volta sono andata all’ospedale per le percosse ricevute. Era l’autunno del 2007. Sono rimasta in ospedale qualche giorno e non ho raccontato a nessuno la verità. A. telefonava a sua sorella E. a Benin City per minacciare mia madre e mia sorella per costringermi a fare quello che voleva lei. Ma alle minacce non seguiva mai nulla. Ho capito dopo un po’ che erano solo minacce per continuare a sfruttarmi, mi minacciava per tenermi ancora con lei e quindi solo per farmi paura. Questo ha contribuito a farmi maturare ancor più il distacco da lei, così iniziai a non andare in strada (4). Lei mi minacciava e in me cresceva l’odio, poi telefonava a mia madre per farmi tornare sulla strada. Io resistevo e non ero più disposta a lasciarmi intimidire. Tutto stava diventando insopportabile, volevo finirla con questa storia brutale.
Era l’agosto del 2008 quando ho conosciuto una vicina di casa nigeriana. Presa confidenza con lei gli raccontai della mia esperienza e lei mi disse che era accaduto anche ad una sua cugina. Questa si era rivolta ad una comunità di accoglienza che l’aveva aiutata. Così ho contattato la stessa comunità e subito dopo sono stata ricevuta da una suora a cui ho spiegato il mio problema.
Con il mio fidanzato sono andata alla stazione e sono partita per Napoli, dove c’era ad attendermi una operatrice. I miei familiari non hanno più paura e io sono più serena. Ai conoscenti in Nigeria dicono che sono in Canada. L’esperienza sulla strada è durata circa tre anni.

(4) Strategie messe in campo da una maman verso la madre di una sua vittima minorenne. Si tratta di un lunga lettera incisa su una cassetta registrata che la maman fa arrivare a Benin City con un corriere. Si evincono, dal documento, le diverse strategie attivate. Queste appaiono prima gentili e quasi timidamente lamentose poiché la vittima non va più in strada per lei, poi si fanno più invasive e ricattatorie per passare - se non raggiunge il suo obiettivo di riportare la vittima sulla strada con l’aiuto appunto della madre – alle minacce e alle possibili visite punitive da parte di suoi parenti maschi. La minorenne, infatti, si rifiuta di prostituirsi e la madre reagisce positivamente alle minacce della maman.

Il racconto di Mudiwa - Mi chiamo Mudiwa e sono nata alla fine del 1990 a Benin City. Compirò 18 anni nel prossimo dicembre 2008 (il colloquio è avvenuto alla fine di ottobre 2008). Per entrare in Italia mi hanno dato un passaporto di una persona che c’era stata prima di me. Nel passaporto avevo 23 anni, mentre in realtà ne avevo soltanto 17 e mezzo. La prima tappa è stata Torino e in seguito Piacenza. Era febbraio del 2007 e faceva freddo. I miei genitori sono entrambi deceduti circa dieci anni fa. Avevo 7 anni allora e rimasi sola con due fratelli. Così siamo stati allevati dalle famiglie dei cugini che abitavano vicino a noi a Benin City. In città lavoravo come parrucchiera. Nel gennaio 2007 mentre lavoravo entrò una signora di nome S. e iniziò a parlare dell’Italia: era un paese dove si poteva lavorare con le attrici, acconciarle i capelli e avere successo nel mondo del cinema. Dopo qualche mese mi propose di partire. Accettai, credendo alle sue dicerie.
Contrattammo la partenza. Mi parlò del rito woodoo e dunque del giuramento davanti agli spiriti degli antenati. Non ebbi paura perché il woodoo è la religione di molti nigeriani e lo era anche dei miei genitori. Giurai di pagare quanto mi veniva prestato. Mi dissero che avrei dovuto pagare 40.000 euro. Dissi di si, ma non ci feci caso e poi non sapevo neanche cosa significasse quella cifra. S. mi disse che sarei partita per l’Italia e che lì mi avrebbe aspettato una sua conoscente. La settimana successiva venni portata a Lagos e, dopo un lungo periodo, quasi un mese e mezzo, mi portarono in Togo, dove rimasi ancora per circa una settimana.
Dopo partii in aereo e arrivai a Torino dove mi aspettava un’altra donna di nome T. Questa mi portò a casa sua a Piacenza, dove avrei preso lavoro. Invece del lavoro T. mi disse che avrei dovuto andare sulla strada e vendermi ai clienti italiani per pagare in fretta il debito. Dissi di no e che avrei chiamato S. perché quelli non erano i nostri patti. T. cominciò a ridere, dicendomi che S. l’aveva venduta a lei e che quindi il debito dovevo pagarlo a lei e non più a S.
Iniziò a trattarmi male, a picchiarmi e a non farmi mangiare per giorni. Mi chiuse in casa per tre giorni dandomi solo caffè e latte e qualche biscotto. Con l’aiuto di un suo fidanzato mi legò al letto e mi picchiarono con una cinta. T. continuava a dirmi che bastava che mi prostituissi per pochi mesi e il debito sarebbe stato coperto e io potevo poi essere libera e fare quello che desideravo. Per quasi un anno ho fatto questa vita e non so quanti soldi ho dato a T., al suo fidanzato e a una persona che stava sempre con loro. Era un italiano pensionato e a volte mi chiedeva di stare anche con lui senza pagare. Ero stressata e sfiduciata.
Ero triste e non sapevo come ribellarmi. Ma durante il mese di luglio del 2008 conobbi una famiglia di Como che abitava nella zona in cui mi prostituivo. Loro, mossi a compassione perchè mi vedevano molto giovane, cominciarono a parlarmi e a salutarmi ogni volta che passavano davanti a me. Notai che venivano apposta a parlarmi e qualche volta mi portavano delle cose buone da mangiare. Perlopiù dei dolci e delle barrette di cioccolato. Dopo qualche mese mi proposero di lavorare come badante e di seguire la loro anziana madre. Io accettai la proposta e mi trasferii a casa della signora anziana. Insomma, mi aiutarono a fuggire. Era il mese di settembre. Dopo un paio di settimane venni accolta in una casa-famiglia. Attualmente ho fatto la richiesta di permesso di soggiorno e sto seguendo il programma di protezione sociale. L’esperienza sulla strada è durata circa un anno e mezzo.

Breve commento - I casi di minorenni reclutate e destinate alla prostituzione coatta presentati permettono di ricostruire uno scenario caratterizzato da raggiri, mistificazioni e bugie, da truffe monetarie e da violenze perpetrate allo scopo di svilire qualsiasi resistenza alle pratiche di sfruttamento. Il reclutamento apparentemente è casuale: una signora distinta, ben vestita e carismatica avvista una minorenne e comincia a studiarne i comportamenti. Le si avvicina, parla dell’emigrazione e del successo potenziale che potrebbe apportare. Parla dell’Italia e di conoscenti che sono passati da condizioni precarie e frustranti a condizioni agiate e soddisfacenti.
Oppure amici e conoscenti che ascoltano i desideri di giovani donne in difficoltà economiche, con genitori anziani da curare o figli piccoli da allevare; oppure di giovani donne sole e senza protezione che vengono invitate a parlare con la signora elegante e riverita per la sua benevolenza che può cambiare la vita delle persone.
La signora è al centro del reclutamento, la maman, nomignolo familiare (come “mami”) è l’asse di riferimento per qualsiasi donna intenda espatriare a prescindere dall’età. Con le minorenni sembra tutto più facile, sono più circuibili e più fiduciose che tutto andrà per il meglio. I soldi per organizzare il viaggio non sono un problema. La maman li trova facilmente (appare e si presenta, di fatto, come una emigrante di successo) e con i soldi arrivano anche i documenti. Con i documenti e del denaro a disposizione l’organizzazione del viaggio è un problema secondario. Le minorenni partono. Il viaggio come si evince dai racconti assume rotte e tratte direzionali diverse, a seconda se si punta vero il Marocco, verso l’Algeria o verso la Libia. La ragnatela che si descrive seguendo le città e cittadine menzionate trova una convergenza comune nello stato del Niger. È qui che poi si ramificano le rotte. L’accompagnatore è in genere un nigeriano, un brother, un fratello di cui fidarsi che ha l’incarico di portare la minorenne ignara verso la frontiera prescelta. Gli itinerari comunque sono sperimentati e sicuri. I rapporti tra gli snodi della rete criminale sono monetizzati e strumentali, di scambio economico per servizi reciprocamente erogati. Nessuno chiede i motivi e le finalità di questa mobilità interstatale di persone, di minorenni.
Le transazioni economiche che si realizzano sono multiple e pluridimensionali. Tutte vengono assommate alla vittima, al conto che prima o poi scoprirà di avere in aggiunta al debito in parte conosciuto poiché pattuito al momento della decisione di partire. L’attraversamento delle frontiere europee (nella fattispecie spagnole, francesi e italiane) appare realizzabile senza nessuna difficoltà, se non quando si attraversa il mare per approdare a Lampedusa, arrivando dalla Libia. La distribuzione delle minorenni sul territorio italiano, sia se entrano dalla frontiera terrestre che da quella marittima, appare altrettanto semplice. Semplice appare anche il modo con cui le maman avvisano le minorenni di quello che dovranno fare per pagare il debito, e la trasformazione della somma che le vittime devono rimborsare in euro per essere arrivate a destinazione.
Altrettanto disinvolta è la violenza che viene esercitata dalle maman per costringere le vittime a soggiacere alla loro volontà criminale. La maman è una imprenditrice che tratta merce umana con la stessa dedizione con cui tratterebbe qualsiasi altra mercanzia. La sua avidità, nonostante la violenza che pone nel far rispettare le regole criminali, diventa il motivo di frattura con le vittime soggiogate. Alcune minorenni rompono con maggior facilità di altre, altre ancora si “sdoppiano” e maturano la rottura con la maman in due fasi: una interna, cioè vissuta nell’intimo, snaturando progressivamente il potere autoritario della stessa maman pur accettando, al contempo, ancora violenze e sopraffazioni; l’altra esterna, quando la misura è colma e dunque matura la rottura definitiva cercando attivamente chi può sostenerle in questa scelta o predisponendosi psicologicamente a farsi aiutare dai servizi sociali, dalla polizia o da singole persone per cui nutrono fiducia (sia connazionali che italiani).
Ciò che appare significativo, almeno dai casi descritti (considerando, certo, il fatto che sono casi di successo), è che la rete dei servizi appare ampia, come la rete di persone sensibili in grado di riconoscere queste forme di schiavitù e quindi adoperarsi per intervenire attivamente.
Il rapporto con i servizi a volte è lineare, a volte problematico ma comunque appare del tutto necessario e strutturalmente importante perseguire il programma personalizzato.

La tratta delle minorenni nigeriane in Italia
I dati, i racconti, i servizi sociali
(UNICRI Roma 2010 - www.unicri.it)

"Nessuna esperienza umana è troppa bassa da poter essere assunta a rituale e ricevere così un significato sublime"

07 marzo 2012

Manifesto delle Vittime della Tratta

"La prima volta che vai sulla strada per lavorare sei nel panico.
Io ricordo la strada.
Ricordo il marciapiede.
Ricordo la mia vergogna di stare lì, con dei vestiti assurdi.
E l'attesa.
Ricordo l'attesa che qualcuno arrivasse e mi facesse un segno dal finestrino abbassato, che mi dicesse vieni, che dicesse quanto.
Ricordo ancora la voce dei primi che mi hanno chiamato, e la mia voce che rispondeva no, no, no!"

(.. Le Ragazze di Benin City ..)

MANIFESTO DELLE VITTIME DELLA TRATTA
Noi, vittime ed ex vittime della tratta.
Noi, donne italiane rappresentanti di enti, associazioni, forum ed istituzioni,
Noi, uomini delle reti maschili contro le violenze sulle donne, operatori e rappresentanti di servizi e comunità antitratta, clienti – ex clienti e finti clienti,
e tutti noi operatori dell’informazione, della cultura, dello spettacolo, del lavoro, della politica, delle istituzioni civili e religiose, consapevoli che il problema della tratta richiede un rilancio delle azioni di contrasto, riteniamo anzitutto indispensabile DARE ASCOLTO ALLA VOCE DELLE VITTIME DELLA TRATTA, agendo affinché sia rafforzata l’espressione diretta delle loro richieste.

AFFERMIAMO CHE:
  • È INDISPENSABILE DISTINGUERE TRATTA E PROSTITUZIONE, pur nella consapevolezza che la prostituzione non può e non deve essere considerata un reato e che le donne che si prostituiscono non possono e non devono essere criminalizzate.
  • È INDISPENSABILE FERMARE LE POLITICHE REPRESSIVE considerando che le retate, gli arresti, gli avvii nei CPT, i rimpatri sono un ingiusta persecuzione e alimentano il clima di paura nel quale le vittime della tratta non possono maturare la scelta di fidarsi di operatori, enti, forze dell’ordine, istituzioni.
  • È INDISPENSABILE ASSICURARE VERA GIUSTIZIA CONTRO I TRAFFICANTI lamentando che i processi alle maman e ai trafficanti, nati da denunce di vittime della tratta, si concludono troppo spesso con gli arresti domiciliari di trafficanti che tornano così a vivere liberi a diretto contatto con le loro vittime.
  • E’ INDISPENSABILE ASSICURARE VERA LIBERTÀ ALLE VITTIME DELLA TRATTA offrendo loro percorsi di uscita non condizionati dall’obbligo di presentare una denuncia, obbligo che frena la maggior parte delle ragazze poichè temono conseguenze per se e per la famiglia.
  • È INDISPENSABILE POTENZIARE LA RETE DEI SOGGETTI CHE OPERANO CONTRO LA TRATTA riconoscendo la possibilità di operare anche a figure individuali, familiari e associative che, in veste di Tutor o di Sponsor possano agire direttamente o interagire con gli enti accreditati, vedendo riconosciuto e legalizzato il loro ruolo.

Il presente manifesto nasce da un'indagine durata due anni (2009-2010) sulla realtà sommersa delle nigeriane vittime di tratta. Sono state avvicinate un migliaio di ragazze e raccolto le loro drammatiche storie, poi pubblicate in un libro di Isoke Aikpitanyi "500 Storie Vere" edizioni Ediesse.
500 Storie Vere



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